venerdì 21 agosto 2009

Recensione Cloverfield - 19/02/2008


A distanza di quasi dieci anni da quel The Blair Witch Project che rivoluzionò ed ampliò il concetto di mockumentary, imponendosi all’attenzione del pubblico per l’insolita quanto originale scelta di girare l’intero film attraverso l’obiettivo di un’unica cinepresa amatoriale, J.J. Abrams (attore, regista e produttore famoso per la serie televisiva Lost) e il quasi sconosciuto Matt Reeves, lanciano sugli schermi dei cinema di tutto il mondo Cloverfield: pellicola che all’opera di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez deve molto.
Forte di una campagna pubblicitaria davvero azzeccata, Cloverfiled narra la storia di un gruppo di amici dispersi per le strade di New York a causa dell’imponente attacco di una mostruosa creatura di ignota provenienza.
Va detto subito come scrivere una recensione su Cloverfield equivale a un lungo spoiler. La ripresa tramite un'unica telecamera amatoriale e la presenza del mostro sono i punti cardine dell’opera di Abrams che la sapiente campagna pubblicitaria (o viral marketing) -primo degli elementi che accomunano il film a The Blair Witch Project- ha intelligentemente mistificato. Se di quest’ultimo ai tempi della sua uscita nelle sale poco si sapeva tranne che fosse un film e non un vero documentario (da qui la definizione di mockumentary), in Cloverfield lo stesso gioco del silenzio e dell’indizio fuorviante è stato reso prolifico al fine di creare un livello di aspettativa davvero alto.

"... scrivere una recensione su Cloverfield 
equivale a un lungo spoiler ..."

Per  tale motivo scoprire dopo la prima mezz’ora di proiezione in cosa consista la minaccia prospettata dalla campagna pubblicitaria porta per forza di cose lo spettatore a considerare la pellicola da una prospettiva completamente diversa. Il fascino de Il Mistero della Strega di Blair si giocava tutto sull’incomprensibilità degli accadimenti ripresi dal limitato occhio della telecamera, mentre Cloverfield rivela praticamente subito le sue carte più vincenti sgretolando quanto di buono era stato fatto in fase di marketing. Ciò che va analizzato di Cloverfield non è la scelta di rilanciare un genere come quello dei monster o disaster movies tramite la semplice introduzione della sola telecamera a spalla, piuttosto le motivazioni che portano a distanza di nove anni a fare della strega di Blair un mostro alto venti piani. In mancanza si potrebbe dire fin da subito che Cloverfield è un film di poco valore, una trovata molto meno originale di quanto ci si possa attendere in un primo momento.
Perché girare Cloverfield nel 2008 quindi? Se ci voltiamo indietro, dal 1999 ad oggi molti sono gli eventi che decontestualizzandolo hanno reso The Blair Witch Project un prodotto originale quanto un sasso lanciato in uno stagno. Dal il 1999 a oggi il mondo ha conosciuto, il Grande Fratello e il fenomeno dei Reality, l’Undici Settembre, lo Tsunami, La distruzione di New Orleans, You Tube, il Videotelefonino, l’affermarsi del documentario come prodotto di massa e –per restare in un campo che sentiamo più nostro- il dilagare degli FPS come genere più diffuso nel mondo dei videogiochi.
Se The Blair Witch Project era riuscito ad affrontare egregiamente un tema molto moderno come quello dell’ossessione giovanile per il video, la percezione di sé stessi e della realtà che ci circonda filtrata tramite un obiettivo, Cloverfield riprende questo concetto e lo evolve alla luce dei fatti appena citati.
Scene come quella della distruzione di New York e il senso di smarrimento dei protagonisti nell’apprendere tramite i teleschermi presenti all’interno di un negozio degli eventi che si svolgono a pochi metri di distanza da loro, possono considerarsi né più e né meno che precisi richiami alla storia appena trascorsa raccontataci dai telegiornali. Immagini riprese grazie a videofonini, macchine fotografiche e videocamere di amatori sparsi per il globo, immagini che del globo hanno fatto il giro in poco meno di un click, che con estrema semplicità possiamo rivedere oggi in qualsiasi momento collegandoci ad internet.
Abrams e Reeves sembrano dirci che al giorno d’oggi Godzilla non può più esistere, né tanto meno farci paura. Abbiamo ancora negli occhi le riprese dei videoamatori al riparo dall’alto di un edificio che catturano le immagini dell’acqua che trascina via persone e cose durante il post - Tsunami delle Maldive. Su tutti penso al World Trade Center che implode su se stesso.
Immagini divenute comuni, quasi normali, che Hollywood non può più raccontare con il grandangolo. Scene che in Cloverfiled non terrorizzano quanto dovrebbero.
Ed è proprio questa una delle chiavi di lettura del film, l’obiettivo della telecamera come simbolo di un voyeurismo estremo: una ricerca dell’esperienza diretta che non è cinematografica (poiché il cinema che narra sensazioni parla ben altro linguaggio) ma mimica. Un porre sé stessi al centro degli eventi come testimoni: la telecamera come coperta di Linus, archetipo moderno dell’esistenza.

"... l’obiettivo della telecamera come simbolo 
di un voyeurismo estremo ... "

Così la realtà prende il posto della fantasia e il cinema non può che adeguarsi a questo stato di fatto: la scena del cameraman quasi schiacciato dal piede di Godzilla nell’omonimo film di Emmerich è ormai storia passata, cinematograficamente irripetibile, forse un simbolo premonitore dei nostri tempi.
Cloverfield non si presenta come una ricerca di realismo, in equilibrio sulla c.d. sospensione dell’incredulità serve una parossistica simulazione del reale.
I molto giovani attori, ritratti in un quadretto di vita mondana secondo una sceneggiatura che vede la difficile storia sentimentale tra Rob e Beth porsi a cornice dei fatti narrati, inquadrano subito la c.d. generazione d’oggi: giovani, sconosciuti e pieni di complessi, con tanto di MySpace personale.
Hud, il timido amico di Rob dall’emblematico nome, viene incaricato di effettuare le riprese. E’ poco più di un ragazzotto con ancora qualche problema adolescenziale, incapace di rivolgere più di due parole di fila a Marlene, oscura ragazza di cui è infatuato. Rob è un trentenne da sempre innamorato della sua amica Beth, in procinto di partire per il Giappone mettendo così una grossa pietra sopra ai propri problemi sentimentali. Beth, invece, è la tipica ragazza bella, difficile e apparentemente inarrivabile, di cui tutti –pubblico compreso- si innamorano a prima vista.
Personaggi insomma troppo banali, irreali quasi, buoni solo per un reality o una fiction, che la TV ci ha insegnato a riconoscere come reali, tirati via con forza da una qualsiasi puntata di Friends.
Emblematica ad inizio film la battuta di Beth rivolta a Rob che la riprende, augurandosi che il filmato non finisca su Internet. Emblematico, lo dicevamo, il nome Hud dato al principale portatore della videocamera: l’hud in termini videoludici rappresenta tutte le informazioni visualizzabili in sovrimpressione, o –come avveniva nell’ottimo tie-in del King Kong di Peter Jackson- tramite voce.
Intelligente l’uso fatto ancora una volta della telecamera che, secondo la storia del film, registra sopra le riprese effettuate da Rob e Beth qualche giorno prima, con spezzoni di quel filmato che alle volte si sovrappongono alla storia principale alla stregua di flashback, fino all’amaro quanto brillante finale.
La scelta registica di fondo, insomma, diviene anche un espediente per giocare con il tempo e con il pubblico, là dove solo quello che la telecamera riprende ci è dato sapere: con conseguenti  e repentini slittamenti temporali dovuti ai momenti in cui Hud è costretto a interrompere le riprese.
Da ultimo, il ritmo frenetico degli eventi narrati fa di Cloverfield un film non per i deboli di stomaco: gli sballottamenti della telecamera rendono difficile lasciare il cinema senza avvertire una strana sensazione di intontimento.

" ... solo quello che la telecamera riprende ci è dato sapere ... "

Nonostante tutto il film non mantiene le promesse fatte e in parte lo avevamo anticipato. Se i primi minuti del film tengono vivo l’interesse, con scene molto belle come l’inquadratura della testa mozzata della Statua della Libertà, dal secondo tempo in poi qualcosa sembra perdersi. La sceneggiatura fa molto poco per mantenersi viva, toccando più o meno gli stereotipi dei film del genere e affidando sempre alla telecamera quel quid che differenzia Cloverfield dal resto, per poi riprendesi sul finale. L’idea che balza in mente dal secondo tempo in poi è che Cloverfiled non sia tanto un film catastrofista girato con una telecamera amatoriale, quanto una ripresa amatoriale di un film, per meglio dire, della realtà. Si va dalla fiction, all’horror alla Alien (in certi momenti si può benissimo tirare fuori il nome di Doom), al fanta-thriller, al dramma. Il tutto mal condito da una mano che tradisce le origini televisive delle due menti dietro alla pellicola, e da una sceneggiatura abbastanza -o volutamente- scontata.
Ovviamente privo di colonna sonora, Cloverfield fa un forte utilizzo degli effetti sonori. Quelli speciali sono di primissimo ordine, impreziositi da una fotografia dai toni abbastanza saturi che rende bene l’idea di un filmato amatoriale, senza però  tradire le velleità cinematografiche della pellicola.
Allo stato dei fatti Cloverfield rappresenta un’opera concettualmente perfetta, povera solo di una sceneggiatura che non mantiene i ritmi di un film: rivelandosi anzi come l’ottimo concept dell’episodio pilota di una serie televisiva, senza fare nulla per nascondere la sua natura di cliffhanger.

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