mercoledì 30 giugno 2010

Il tricheco è peste


La carne mandava odore di urina. Urina mista a feci. Decomposta. Un odore intenso e pungente che sembrava non dare fastidio ad alcuno dei passanti di via G. Ungaretti all’incrocio con la G. Zanardelli. Qualcuno appena prima di entrare nel parco della villa comunale di fronte, levava dalla tasca un fazzoletto per soffiarsi il naso. Come a dire “fa fresco” oppure “sa la stagione … io sono allergico al polline” “Uh, uh!”. Insomma pochi, molto pochi, si accorgevano del feto orrendo che impregnava l’aria di quel fine pomeriggio di primavera. Come qualcosa di appiccicoso quando fa caldo e c’è umido, e nessuno ha voglia di andare in giro. Nessuno eccetto Oreste naturalmente, che malgrado suo li rappresentava un po’ tutti.

Oreste Pausania, questo il suo nome completo, non si era mai accorto di quanto alti potessero essere i fiori o colorati i tronchi degli alberi, oppure liquorosa la scia che le barchette di carta si lasciano dietro appena prima di affondare. I bambini che le spingono sul pelo dell’acqua fino ad un certo punto poi semplicemente le lasciano andare. Finché vanno, va. Insomma, non lo aveva mai notato perché “spesso” pensava “la gente fa una fatica tremenda a sollevare il naso da terra”. Non era propriamente il livello del mare quello, siamo intesi.
Di questa brillante intuizione si sentiva abbastanza compiaciuto, al punto da soffermarcisi a pensare su mentre camminava lungo l’interminabile G. Ungaretti che non si schiodava nemmeno un momento dall’incrocio con la G. Zanardelli, avanti e dietro, da un angolo all’altro di una Villa di cui non conosceva nemmeno il nome. Vent’anni dopo un equipe di scienziati illustri, stanchi e frusti di cercare una cura per il cancro, avrebbe scoperto che quell’incrocio volgeva un po’ più ad est poco meno che vent’anni prima. Il segreto del punto G sarebbe stato detto. Rideva.

Non lo stupiva affatto vedere le macchine che si fermavano al rosso del semaforo, proprio mentre una pesante colata di saliva, mista a muco, misto a caramelle per la gola, misto a carie, splasciava al centro dell’incrocio. Non lo infastidiva perché era una reazione naturale a certe cose, ma nessuno ci pensa mai sul serio a cose come questa.
Un tizio girava con l’ombrello ancora aperto per la pioggia di poco prima. Guardandolo passare Oreste si ricordò che era marzo e marzo gli fece venire in mente suo nonno, che era un uomo che amava ripetere in questi casi che marzo è il più corretto dei mesi, perché non piove mai sul bagnato. Sorrise, ma il tizio sembrava sempre più uguale a suo nonno, che in realtà si chiamava Mevio, mentre lo guardava disteso in chiesa dentro la bara il giorno del suo funerale. Quello si fermò e allungando la mano un momento col palmo aperto verso su disse “Oh!” ed arrossì. Chiuse l’ombrello e dopo averlo asciugato con un fazzoletto lo rispose nella custodia pulendosi con estrema cura le mani sporche di sangue. “Grazie” disse rivolto ad Oreste con tono dignitoso e signorile. Lui si inchinò facendo una grossa riverenza e una pernacchia. La carta è molto affilata da queste parti, profonda più di un ulivo.

Oreste capiva bene l’ostinazione di tutti i nasi, anche quelli più sensibili, di continuare a sporgersi verso il basso, ma era anche estremamente convinto che dietro ogni naso ci fosse una testa “e quella può stare sotto come sopra” intuiva. In un primo momento non ci faceva molto caso, ma con l’esperienza aveva presto imparato a interpretare anche le più piccole rughe che si formano sulla fronte. Perciò dei giovani non si fidava, e se incontrava un cane, beh, quella sì che era proprio un grattacapo.
Intanto Oreste girava avanti e indietro sulla G. Ungaretti e la gente che passava si faceva sempre più fitta incrociando la G. Zanardelli, come le stelle man mano che il sole tramonta. Di qualche nuvola non è che Oreste avrebbe sentito tanto la mancanza, soprattutto in quelle circostanze che non sapeva proprio come fare. Tra un vecchio disonesto, un bianco sepolcro, un finocchio molto serio e innamorato, un’infedele in carriera, un uomo che stava per morire, i cani, i soliti assassini, i falsi, i bruti e gli agnelli col muso inzuccherato d’ambra, starnutiva lui. Esistenze che sapeva legate assieme da suoni e da odori ancora una volta più tristi dell’erba quando cresce. Uomini così impegnati a pesarsi il culo da non sentire l’organico sudiciume dei fiori a due metri di distanza. Nati noti più che banali, pensava.
Quante vite sarebbero scomparse in quel momento se solo avessero saputo. Quanti uomini così sicuri di sé, pensava, avrebbero tirato fuori i loro soldi dalle banche, dai materassi, dai salvadanai, quanti raccolti bruciati se si fosse conosciuta la verità in quel preciso istante. Quanti peccati tenuti a portata di mano si sarebbero potuti consumare. Poteva ancora non finire male dopotutto, che la goduria continuasse ad libitum. Per sempre.

Combattuto tra questi pensieri Oreste continuava a camminare avanti e dietro, quando improvvisamente un tricheco con la mantellina e il cappello lo strinse forte per un orecchio urlandoci dentro YAHONK! e poi un altro YAHONK! così forte da farlo piegare in due per le lacrime. Iniziò a toccarlo sporcandolo d’olio. Lo leccò sul mento con un odore forte di pesce vomitato. Un baffo gli percorse tutto l’esofago su e giù più volte. Oreste si sentì improvvisamente perso, come un’astronave vuota sulla rampa di lancio. Voleva gridare. Gridò, forte: KWHUOOOONCK!(?) dentro se stesso e il tempo sembrò in quel momento dargli ragione, girando appena un po’ più lento del normale. Il tricheco si tolse il cappello e lui gli diede un pugno forte, proprio tra il lobo prefrontale destro e quello sinistro. Il poliziotto cadde accasciato in un rigo di sangue. Fece appena in tempo a segnare una ipsilon di sbieco. Così “t”.

“Guardate, guardate il tricheco” urlava Oreste “e’ questo il tricheco! Io sono l’uomo e lui è il tricheco. Guardate chi ha vinto. No! Sbagliato! Lui non è più niente, come ogni tricheco è peste e altra peste verrà!” Aggiunse saltando sul corpo del sergente (Rossi Maurizio, come da verbale) con entrambi i piedi. “Il tricheco è peste e come il pesto va pestato” ripeteva saltando “il tricheco è appestato, pestate gente!” Le persone intorno passavano dritte facendo finta di niente. “Pestate gente, finché potete.”
Dopo un momento “Voi fate finta” disse puntando le dita “l’ho appena saputo. Lo so che fate finta e non siete per niente sdegnati. Voltatevi, giratevi, guardatevi, chi siete, dove andate?” Continuava Oreste Pausania, avvertendo in quel momento in maniera del tutto evidente la completa arbitrarietà del suo nome. “VOLTATEVI!!” urlò ancora Oreste dritto sul pancione di un tricheco steso morto in via G. Ungaretti all’incrocio in movimento con la G. Zanardelli. E in quell’istante tutti si fermarono a guardare in alto nel cielo, e tutti videro quel tizio seduto, là. Dietro. Ancora morto. In attesa come tanti di un punto.
Permesso.

Orazio e Winnie The Pooh

Esco. Mi muovo. Non sto fermo. Dovrei studiare un poco, ma non sto fermo. Perciò esco. Mi accendo una sigaretta e penso. Forse dovrei ricominciare. Mi siedo ad un tavolo, in un bar. Fuori. C’è bel tempo ormai. La primavera fa le ore grasse. Pesanti. Piene di ricordi come larve. Una tipa si avvicina e mi fa all’orecchio “che bello che sei”. Ed io penso a mia zia stesa sul divano, tra fogli di giornale e vecchie cartoline postali. Francesi. Alla casa di Alda Merini vista una volta in un documentario sul due. Identica. A quella pazza che c’ho davanti e ripete “sei davvero bellissimo”. Mia nonna morta da un mese un martedì pomeriggio senza fiatare, sorridendo. Bevendo da un bicchiere. “Quanto sei bello”.

Mi alzo e non dico niente. Non faccio niente per non darle da intendere. Ho appena saputo che mio zio ha cercato di ammazzarsi con un martello. Non dico niente, non faccio niente. Non rido come al solito come uno stronzo. Non le chiedo con chi ho il piacere. Di scusarsi. Di sorridere ad un discorso bieco. Non la torturo, non mi diverto. Non gioco, non dico niente per tenerla su. Non faccio per andarmene, me ne sono andato. Non mi giro nemmeno un momento. Penso ad un tizio che conoscevo morto di cancro a 24 anni. Ad Arvo Part. Tintinnabuli. Al tizio che scrisse di me che viaggio, come un iceberg in un mare di scogli. Che disse che io sono Tintinnabuli. Che per scrivere ci vuole orecchio. Che disse che io avevo detto tutto questo. Tintinnabuli avevo detto.

Penso alle parole. Alle forme degli astri. Alla lag celeste che mi sembrava un bel modo per chiamare le stelle. A Dio che sembra che non gliene fotte un cazzo. A chi dice che in realtà gliene fotte sul serio ed è proprio questo il bello. Penso alla tizia che ho lasciato dietro che non era male. Alla solitudine. Alle rughe del buffone e alle occhiaie dell’intellettuale. Orazio e Winnie The Pooh. Alla cessa che la sera prima mi ha chiesto un brindisi. Al brindisi che non so fare anche se sono un poeta. Sì, non so mettere due rime in fila e sono un poeta. Contenti? O si beve o si muore. Anche questo è il bello.

Che mi hanno chiesto una frase per la pietra tombale. Io steso sopra una tomba in un cimitero vuoto per non sentire nessuno. E loro che mi chiedono un verso. Un epitaffio. Una frase hanno detto. Per esprimere quello che provo. Ok, gli ho detto. Poi non l’ho fatto. Una frase, un verso, un sì. Niente che non sia già stato detto. Meglio il silenzio. Una frase o un verso sono una cosa tremenda. Una discesa all’inferno. Uno sputtanamento senza gusto. Meglio il vino al verso. La poesia liquida al riflesso di uno schermo. Un chiodo ad un punto fisso. Un clistere ad un enjambement. Andare di corpo piuttosto che di spirito. E’ sempre meglio.

La passo. Mi dimentico. Mi diverto. Non ci penso. Non è giusto lo so, ma non serve a niente. Ci si deve pure aggrappare a qualcosa. Mi aggrappo. Quasi ne esco. Poi il crollo. Mio zio, quello del martello, morto. Mia zia è un armadio di pianto. Io mi sento più leggero. Non insisto. Non scrivo e non voglio. Nessun turbamento. Sono triste sì, ma non a quel punto. Non piango, rido.
Nel pomeriggio l’altro zio mi presenta il suo epitaffio. La nonna è ancora senza. Mi chiede di correggerlo. E’ bello. Cita Franco Costabile. La rosa nel bicchiere. E’ bello. Lo correggo. Ci metto del mio. Rimesto i ricordi. Una vita in quattro versi. Lo stesso modo di sentirla. Il volto di mia nonna che riemerge dallo specchio. Il bicchiere che custodiva per me soltanto da che ne avevo dieci. Che solo io lo tocco quello. Mia nonna che non mi ha mai fatto sentire di troppo. Come nessun’ altra persona in vita mia.

Mia nonna mescolata in una tazza. Mi sto mineralizzando penso. Invecchio. Non ho più la forza di un tempo. Sono solo come un cervo. Per la strada come un cervo. Tra le macchine che passano e sbuffano e suonano. Con le persone che strillano dal finestrino. Io passo. Io sono un cervo. Mi accendo un’altra sigaretta e penso diamine sì. Una nuvola di fumo mi cresce dentro. Sono un cervo. Se vi va bene resto, altrimenti fa lo stesso. Anche se resta qualcosa in sospeso. Quel discorso sul cervo. Appunto.

(bob)



Il SUV del capitano "Achab"


Ponte Lungo - Via Salaria, ora di punta.

Devo arrivare in segreteria almeno mezzora prima dell’apertura degli sportelli, altrimenti mi aspetta una coda simile a quella che hanno fatto i tifosi interisti per i biglietti di Madrid.
Io però non posso far passare il tempo cantando ubriaco a squarciagola cori da stadio. Bella differenza.

Monto in sella al mio bolide, una Bianchi da passeggio che avrà almeno una ventina d’anni.

Un passaggio obbligatorio per il 90% delle destinazioni, è la rotonda di “Re di Roma”, famosa piazza di ritrovo per anziani la mattina, coatti il pomeriggio, e tossici la notte. La strada ricorda il circuito della ventiquattrore di Le Mans, un cerchio perfetto. Sarà per quello che la maggior parte dei motorizzati la prende a 60 kilometri orari, un paradiso per i pedoni e quelle strane creature deformi che si muovono in bici.
Se passi indenne la rotonda ti aspettano altre due forche caudine.
La prima si chiama Porta Maggiore, uno snodo stradale che collega verso qualsiasi direzione. In questo luogo tutto è inquinato, persino il cibo : il venditore ambulante si chiama “O Zozzo”, da anni il suo posto è quello nel quale penso converga la più grande massa di CO2 di tutta Roma. Adoro osservare la gente che mangia seduta sul bordo del marciapiede, con in faccia i tubi di scappamento delle macchine lasciate accese per inerzia. Se ha avuto una giornata difficile, la gente la sera va dallo “Zozzo” : CO2 più “pane e merda”, uguale Tavor.
Io per sballarmi come si deve, non devo far altro che aspettare di passare in bici dalla stazione Termini. Lì spesso vengo colto da crisi e deliri mistici da monossido di carbonio. Se mi impegno e riesco a fare un bel respiro profondo, dopo aver pedalato di gran lena per togliermi dalle palle il clacson della signora Maria, posso cadere in stati di trance paragonabili solo a quelli dei fumatori indiani di tabacco. Più che morte apparente, sono visioni strane, come quella volta al semaforo che vidi il capitano “Achab” smanettare con l’autoradio dentro un SUV lungo sette metri e alto quattro. Tornai nel mondo reale non appena “Achab” abbassò il finestrino : il gelo della sua aria condizionata mi sapeva di inferno, ufficio e colletto stretto quanto basta per non morire strozzati.

Parcheggio la bici e salgo in segreteria.

Butto un occhio alla fila, esattamente come un giocatore di poker spizza le carte della mano in cui si è giocato il braccialetto d’oro della prima comunione.
Ne avrò per un’ora abbondante, mi è andata di lusso.

Nel mentre mi arriva un messaggio dal mio coinquilino : “scusa, sai è un periodo strano, scusa davvero per la reazione”. Prima che sfidassi la metropoli in tempesta e vedessi il capitano “Achab”, aveva sbottato di brutto lanciando le cose per aria, radunando tutta la sua roba in un angolo della stanza. Mi disse con tono serioso e perentorio, “avevi detto che non avresti mai comprato un aspirapolvere in vita tua, che avresti fatto sempre tutto a mano, ed ora eccoti qui ad usarla con me per pulire la casa dopo che si è allagata! Sei uno stronzo, me ne vado!” C’è da dire che il capitano “Achab” l’avrei conosciuto di lì a poco, e forse era per quello che la situazione mi sembrava alquanto grottesca.
Ai suoi messaggi non faccio più caso da un po’, ormai lo conosco bene, so che a un certo punto ritorna a casa e via come se non fosse successo niente, Nick Drake e Lilly Gruber che fanno a botte nella stanza, il volume del tg che annienta la mia ultima canzone. Un po’ come il capitano “Achab” che dentro al SUV si annienta con Radio Deejay, e il volume appena sotto la soglia del dolore.

Ritorno a casa. Più o meno le mie orecchie ci mettono mezzora a disintossicarsi dall’inquinamento acustico, mentre per quello atmosferico c’è poco da fare. Se passi da Porta Maggiore in bici all’ora di punta, ritorni a casa con la sensazione di aver fumato trenta Marlboro rosse di fila.
Accendo la tv. Spagna contro Portogallo. Sorrido compiaciuto, ma non appena le vuvuzelas iniziano a infastidirmi, tento quasi una mossa isterica brandendo il telecomando con fare minaccioso. Poi capisco tutto e mi lascio coccolare da quel dolce suono e mi addormento.

Domani mi sa che andrò a sudare in metro.



(Michelangelo)

Dopo l'amore

Spense la sigaretta ed uscì, deciso come era a prendersi la sua rivincita. L’ avrebbe ammazzata quella stronza, a furia di correre i polmoni le sarebbero esplosi in petto. Sarebbe morta soffocata dallo stesso sangue che le pompava fin dentro i bronchi. Poteva correre allora, corresse pure, pensava. Se non fosse bastato ci avrebbe pensato lui.

Trovò nel retro della casa l’accetta. La lama scintillava sotto la luce riflessa della neve del primo mattino, così affilata che ogni fiocco cadendo si apriva come le pagine di un libro lungo il filo. Era ancora sporca di sangue, ma utile. “Quel dannato cane” pensava. Prese la strada che portava giù a valle seguendo le orme come certi segugi l’odore della preda. Fortuna ed istinto. Sempre cani.

Pensò che l’aveva amata, ma non era per amore che sopportava quella fatica. Pur di ammazzarla intendeva, pur di ammazzare una donna un uomo farebbe qualsiasi cosa. E lui lo credeva possibile, se non proprio del tutto, almeno abbastanza. Per lui era così in quel momento e forse era l’amore che lo rendeva così semplice. Era possibile in fondo.
I passi si susseguivano l’un l’altro da soli senza soluzione di continuità, come battiti nel cuore. La casa, piccola triste baita di quella luna di miele, distava già qualche centinaio di metri. La neve si era infittita così tanto da offuscargli la vista più di quanto la rabbia non era già riuscita a fare. Non gli importava dell’assideramento. Non era quello il problema, per il momento.

Uomini e bestie si accomunano per una cosa, ancora di più se quella cosa gli circola nel palato strizzando le papille nella bocca come il tacco a spillo di una scarpa. Sangue. Sangue odoroso anche sotto la neve. Sangue che chiama sangue, fresco abbastanza per rendersi conto che qualcuno o qualcosa era passato di lì. Pregò soltanto che i lupi non l’avessero presa prima di lui.
Si mise a correre, ma non di una corsa ansiosa o di paura. Più simile a certe rincorse di treno, quando la vita scorre via e tutto sembra sul punto di cambiare. Corse, corse finché ne ebbe il tempo. Finché la neve non si infittì a tal punto che il dirupo lo colse improvvisamente con dolcezza, senza fare rumore. Inghiottito dal nulla. Quasi.

Non morì. Si lasciò cadere per un tratto sollevando un po’ di neve fino a uno spuntone di roccia giù in fondo. Appena in tempo. Il ginocchio schioccò un clac! e poi anche altre ossa fecero clac! finché non fece clac! anche qualcosa dentro al suo cervello. Ma già al secondo clac! la mente non capiva più cosa stesse succedendo. Tutto gli sembrava soffice e vellutato. Un clac! appunto.
Più in basso stava lei, accovacciata con le gambe attorno alla nuca, senza trucco, con le labbra viola e la cagnetta ferita in grembo. Senza lupi nei paraggi. Da qualche parte. Morta.

sabato 19 giugno 2010

la donna, il sogno e il grande incubo (¿)

Ho solo ventiquattro anni, ma nella mia vita me ne sono già sentite dire di tutti i colori.
Mi hanno chiamato giallo, mi sono sentito rosso in viso e bianco dentro. C’è chi ha pensato che io fossi un fottuto rosa e se la ride perché il viola è da un po’ che non va più di moda. Io non ci avevo mai fatto caso.
Oddio se mi si dà del marrone non è che faccio i salti di gioia, ma dipende dai modi. Se sei bravo riesci a fartelo venire fuori lo stronzo che sei. Soprattutto con la persona giusta.

Una ragazza che amavo una volta volle sentirsi dire da me una rima in cuore/amore. In risposta al mio rifiuto, mi disse “beh, mi aspettavo di più da un poeta” con quel labbro arcuato che è l’ampiezza del disprezzo. Inutile dire che mi sentì come un occhio nero. C’era un mare di cose che non potevano essere spiegate in quel momento. Un cielo livido in pieno Agosto.

Un’altra botta me la diede proprio lei. Un giorno mi disse che io non sapevo che cos’era il romanticismo, perché non le portavo mazzi di fiori ogni giorno, né le avevo mai offerto una cena in un bel ristorante come faceva suo padre con la mamma grassa che aveva. Le dissi allora che verde era il colore dei soldi e della muffa più o meno, persino della rabbia che le saliva sul volto mentre pronunciavo quelle parole, ma certo non aveva niente a che vedere col romanticismo se era di quello che volavamo parlare. Solitamente, si sa, è rosso come il sangue della povera gente.

Pensare che io il sangue l’avevo pure donato per farla contenta. Non è che sia contrario alla donazione, anzi, ma avevo, ho e avrò, una paura fottuta dell’ago. Non sono un codardo, se c’è un buon motivo per fare qualcosa la faccio. E’ una paura da pigro la mia. Perché stuzzicare il cane se dorme? La ballata della vanità.
Insomma, di colori ne ho visti e sentiti tanti. Ho subito il disprezzo di persone a me care. Mi sono sentito chiamare pazzo, stronzo, alcolizzato, cretino. E non con quel tono che si usa tanto per dire, del tipo “sei proprio un pazzo” e segue una risata. C’è chi mi ha minacciato di TSO strattonandomi per il colletto.

Poi quelle stesse persone non mi hanno degnato di un braccio nei momenti più duri. Appollaiato in un angolo non mi sono potuto permettere nemmeno il sollievo di un pianto. Nessuno a cui dire, no non è vero, anche senza poterci fare niente. Solo l’ennesimo occhio attento e la bocca che schiocca “perché non ci scrivi una poesia?” Perversi.

Ah, maledetta poesia. Non fate mai l’errore di firmare una poesia o di farla leggere direttamente a qualcuno. Salinger diceva che la seconda più grande virtù di uno scrittore è l’anonimato, e aveva ragione. Da vendere aggiungerei. Impara l’arte e mettiti da parte, gli altri questo non lo capiranno mai.

Tutto ciò per dire qualcosa. Non so. Volevo dire qualcosa riguardo alla comunicazione, ma il punto è che lo sanno tutti quanto la comunicazione sia dannatamente difficile. Qualcuno mi disse che tra tutte le arti che potevo scegliere avevo optato per quella più discreta, che era sintomatico quasi. Sintomatico per un pazzo, aggiungevo io ridendo.

Ecco è quel ridendo di cui voglio parlare. Non sono così pietoso da venire qui a piangere sul fatto che la vita è dura e non tutti i buoni lo sono abbastanza da farle fare brutta figura. Però ogni tanto ripenso ad un fumetto. Un mensile che amo e a cui devo molto, a lui e al suo autore: Tiziano Sclavi. Molte cose le ho scoperte così da piccolo maturando una mia teoria. L’unico modo che aveva Dylan Dog per sopravvivere ai suoi incubi era l’ironia. Non si prendeva molto sul serio il vecchio Dylan. Se qualcosa proprio andava storto, se la vita smarriva i confini che qualcuno ha tracciato tra realtà e orrore, allora arrivava Groucho con la pistola. Un altro folle, da un altro mondo, pronto a passargliela ovunque lui si trovasse. E’ senza ironia che si perde davvero il senno. Lo avevo capito.

Lo capisco tutt’ora che mi sento così patetico a parlarne. Che un amico incontrandomi mi ha detto “mi sei sembrato blu ad essere sincero” “Come Drake?” “Come Drake, appunto”.

Un pugno sul muso che non so prendere sul serio.