domenica 13 febbraio 2011

Next generation

Il ragazzino davanti a me legge un Dylan Dog. E’ vestito come uno della sua età. Scarpe da tennis, jeans, maglietta degli Iron Maiden e camicia a scacchi bianca sbottonata sul davanti. Vestono ancora così. Tra le gambe ha uno zaino Seven color kaki con tre spille attaccate sopra: il simbolo di Batman, la scritta The Rocky Horror Picture Show e 1Up. Tiene in mano La Zona del Crepuscolo, il numero sette. Ha la copertina pieghevole. Non è un book e le pagine dentro sembrano ingiallite. Chissà come l’ha avuto.
Sono sul 118 per l’ospedale, di ritorno a casa. Ho preso questo autobus per quasi dieci anni ai tempi della scuola. Poi –niente- la macchina.
Il fatto è che me l’hanno rubata due settimane fa e perciò mi tocca. Il giovane alza lo sguardo e si accorge che lo sto fissando. Arrossisce. Fa finta di niente e ripone l’albo nello zaino. Riesco a scorgere la linguetta gialla della seconda ristampa. “Non ne vale la pena” mi dico. "Non ti sto giudicando." Con una graphic novel non l’avrebbe fatto.
Mio padre non mi ha mai detto niente quando leggevo un fumetto. Lo faceva anche lui. Tiene da parte una collezione immensa di Topolino stipata dentro degli scatoloni nel sottoscala. Vanta di avere il numero uno, ma non ce l’ha mai fatto vedere, a me e a mio fratello. Amava anche Crepax e Schulz. E Milo Manara ovviamente. Ma questo era tanto tempo fa. Vivevamo in una casa più piccola allora. Ed io non avevo la patente.
Il ragazzo si alza, indossa lo zaino e scende alla prima fermata. Avrei voluto consigliargli di leggere Edgar Allan Poe. Rivelazione mesmerica lo scoprì proprio grazie a Dylan Dog –superbo- e da allora tutto il resto. Torna a casa ragazzo, non è così importante. Magari faranno qualche replica dei Simpson e sarà la stessa cosa. Vai.

Sono rimasto solo. Ai miei tempi anche io mi portavo dietro qualcosa da leggere. Nei momenti come questo rimpiango la PSP che ho dato via. Mi giro e vedo scorrere la città dal finestrino. I manifesti pubblicitari attaccati l’uno sopra l’altro a cinque centimetri dal muro. Gli STOP a forma di omino con qualcosa nei pantaloni. I muri dei palazzi ingrigiti dall’anidride solforosa. I tombini divelti dopo l’ultimo acquazzone. Penso a quell’articolo che ho letto stamattina in bagno. Dava la colpa al nome se i videogiochi non vengono presi in considerazione. Mi pare. Mi domando se l’autore sappia cosa sono le consuetudini di riconoscimento. Se sa che a sentire Umberto Eco il giocare è secondo un illuminista uno dei cinque bisogni fondamentali dell’uomo. Che cosa ne pensa del carnevale.
Scendo. A casa trovo mia madre a letto. La TV accesa, la PS3 e il pad in mano. Sta giocando ad Heavy Rain. E’ sotto le coperte e senza parrucca. Fa freddo. Sembra un Helgast senza casco. Ecco cosa non sopporto di quel gioco, è casual. Una patita di Fox Crime come lei, figuriamoci. Io invece avrei di meglio da fare, ma devo mettermi a lavoro. David Foster Wallace aveva ragione, siamo una società ossessionata dall’intrattenimento. Passo il 60% del mio tempo davanti ad uno schermo. Per quanto mi riguarda Heavy Rain è l’equivalente della “mucca fa mu”. Faccio un cenno per farle capire che sono tornato e passo oltre. Lei dice qualcosa, credo. “Il merlo fa me”. Le mamme ti leggono nel cervello, come il Simon.
Penso ad Angela che al telefono mi ha detto “non fare come mio padre” mentre insistevo per spiegarle chi è Donkey Kong. “So che sono nata dopo i Pink Floyd” ed io “non è questo, è come Super Mario. E lui ha la mia età.” Probabilmente suo padre aveva un poster di Syd Barret in camera o di Che Guevara, non so. Io ho Gordon Freeman, invece, e credo che ci sia differenza. Non so se farmene una colpa, ma è difficile non pensare a Supergiovane in questi casi. “La maggior parte delle cose che vale la pena aver visto sono accadute prima che noi nascessimo.” le ho detto. Però dai, non l’abbiamo mica scelto noi di nascere adesso. Ho anche qualche stampa di Cézanne appesa al muro per essere, persino un Pokémon si chiamava così, ma so che è una cosa stupida da dire.

La giornata passa in questo modo. Certe cose ti toccano dentro come si dice. E in quel dentro ci puoi mettere una marea di cose, come la gonna di Eta Beta. Ancora mio padre che una volta a natale commentava che i tempi sono cambiati “si è mai sentito dire” urlava “che ad una laurea si regala una console? “ Il lamento di Otacon per la morte di Naomi a cui penso ogni volta che mi sento triste. I luoghi comuni che sono come boomerang e più li allontani e più tornano indietro. Mio nonno che mi insegnò a leggere e che un giorno buttò nella spazzatura la mia copia del Piccolo principe. Perché stavo perdendo tempo diceva. E forse aveva ragione.
Non so se con i miei figli farò le stesse cose. Già me li immagino mentre giocano la sera con la copia di Zelda che avrò regalato loro e stanno per sconfiggere Ganondorf per la prima volta. Gli manca poco, ma gli ho già detto di andare a dormire. Di chiudere quell’affare avrò detto. E loro “aspetta, ancora un poco, abbiamo quasi finito”. Mi vergognerò di aver usato quella parola –affare- ma c’è tempo e modo. “Insomma, sempre con quei giochini, si può sapere quando crescerete?” E mi piazzerò davanti allo schermo spegnendo la console. Li sentirò lamentarsi, ma dovrò fare il padre “via a letto! O ve la sequestro!” Abbracciala, abbracciali, abbracciateli.  Con le parole di Snake che mi frullano in testa “Perdonami. Ho fallito! Mi sono arreso alla paura! Mi sono arreso al dolore. Ho venduto la tua vita per salvare la mia! Sono una nullità, non sono l'eroe che credevi! Io non sono niente! Meryl, mi dispiace! Perdonami!”. L’occhio verde di Gordon Freeman come quello di mia madre che mi guarda fisso da dietro i Ray Ban. Il rumore di un piede di porco che scivola per terra. Donkey Kong che si batte il petto urlando. E poi ancora Naomi morta da tanto tempo.

(bob)