martedì 25 agosto 2009

The Graveyard

Era da un po’ di tempo che non mi dedicavo a del salutare fancazzismo sul web. Magari dopo che avrete visto ciò che sto per mostrarvi vi chiederete pure per quale diavolo di motivo abbia deciso di ricominciare. Fatto sta che internet è davvero uno strano animale, di questo ne sono sicuro. Ce ne sono di trip da farsene durante quello che da ora in poi chiamerò un trip e l’altro.

Me ne stavo tutto intento tra un trip e l’altro a titillare il mouse da una pagina web all’altra, quando finisco per imbattermi non so come in questo strano sito. Una pagina molto spartana, con una sola immagine, qualche bottone e questa scritta:

The Graveyard is a very short computer game designed by Auriea Harvey and Michaël Samyn. You play an old lady who visits a graveyard. You walk around, sit on a bench and listen to a song. It's more like an explorable painting than an actual game. An experiment with realtime poetry, with storytelling without words.

che fa capolino nella parte bassa del monitor; oltre ai vari credits di quello che intuitivamente capisco essere un gioco. Leggendo, il mio unico neurone attivo in modalità risparmio energetico ha un sussulto. La mano smette di titillare forsennatamente e pian piano avvicino il puntatore del mouse sulla scritta Download the Trial version of The Graveyard. C’è anche un’ opzione che mi consente di scaricare la versione completa a soli 5 dollari, che approssimativamente col cambio attuale dovrebbero essere all’incirca 3 euro. Qualcosa però tra un trip e l’altro mi impedisce di rischiare di perdere soldi così alla leggera e solitamente quando sono al PC mi secco da morire ad alzarmi per raggiungere il portafogli dall’altra parte della stanza.

Scarico i 19 Mb della demo e la installo. Imposto un po’ di opzioni prima di avviare il gioco, controllo i comandi e mi accorgo con estrema sorpresa che gli unici pulsanti disponibili sono la classica combo WASD per il movimento e in alternativa le frecce direzionali. Faccio iniziare il gioco e mi trovo catapultato nei panni di una vecchietta un po’ ingobbita che si sostiene su un bastone all’entrata di un cimitero. Da qui il titolo del gioco” penso: The Graveyard = Il Cimitero.

Istintivamente premo W e mi muovo in avanti. Tamburello su D e su S per spostarmi di lato ma niente strafe (menomale), solo rotazione sull
’asse del PG. L’andatura è lentissima. Dapprima la vecchietta sembra sostenere un passo abbastanza fluido, ma improvvisamente inizia a saltellare sul bastone in maniera piuttosto penosa. Al che immagino che magari la signora si sia stancata, mentre  dal modo che ha di respirare sembra proprio in affanno. Mi fermo un momento. Mi giro su me stesso e scopro di essere quasi a metà del percorso. Quando decido di ripartire la vecchia procede nuovamente prima con passo lento ma fluido, poi zampettando.
Nonostante sia ben consapevole di non avere nessun comando a disposizione per interagire col fondale provo comunque ad avvicinarmi a qualche tomba lungo il sentiero. La cosa non sortisce alcun effetto. Quindi mi decido e tiro dritto fino alla panchina che si intravede in fondo. Giunto a destinazione non succede praticamente nulla. Provo ad andare contro alla panchina, ma il PG cammina a vuoto. Tento allora l’aggiramento della cappella subito dietro, ma la telecamera sembra poco interessata al riguardo. Si allarga un po’ per mostrare l’intera area a disposizione e un muro invisibile rende concreta quella che è l’evidenza, il mio unico obiettivo è la panchina.

Torno indietro. Sempre con estrema lentezza e pena. Penso: “magari se mi metto di spalle…” mi giro e resto fermo. Dopo qualche secondo la vecchietta si siede delicatamente sulla panchina e stop. Silenzio. Un cinguettio di uccelli. Questa in pratica è stata l’unica colonna sonora fin dall’inizio del gioco, assieme al gracchiare dei corvi, qualche latrato di cane e il rumore dei passi sul selciato. Stop. Qualche secondo dopo inizia una canzone folk in quella che penso essere lingua Belga. A video scorrono sottotitoli in inglese e mi viene narrata la storia di questa donna. Nulla di particolarmente originale. Alla fine non resta che alzarmi e riprendere il mio viaggio a ritroso fino al cancello ed uscire.

Prima di tornare a Windows però, un messaggio mi chiede se voglio acquistare la versione completa che aggiunge una feature molto importante: la morte. Chiudo tutto e resto a fissare il monitor a vuoto per qualche minuto.

Evidentemente questo The Graveyard è un semplice esperimento, ma da un punto di vista emozionale e narrativo mi è parso un lavoro davvero riuscito. Attraversare quel breve (o lungo?) percorso e tornare indietro in un tetro chiaroscuro che alterna momenti di luce ad altri d’ombra a causa delle nuvole che passano in cielo (reso benissimo dal filtro implementato); la telecamera che segue ogni passo della signora; le lapidi, le tombe, gli uccelli che volano, gli alberi e in fondo la cappella con quella panchina tutta bianca un po’ decentrata; il movimento lento e quasi affannoso del personaggio; tutti questi elementi creano uno stato di sospensione emotiva molto singolare se teniamo conto che è di un videogioco che stiamo parlando.
Non esiste una ragione per cui la signora è lì. Almeno non ci viene detta. Viene quasi naturale iniziare a immaginarci su una storia. Nel frattempo la vedi muoversi realisticamente in un ambiente graficamente davvero ben realizzato. L’empatia cresce. Specialmente quando la signora incomincia a stancarsi

Ho la sensazione di aver vissuto un qualcosa che non è esattamente un videogioco, né propriamente qualcos’altro. Qualcosa che mi è stato raccontato in un modo così lontano dai canoni a cui come giocatore sono stato abituato, che credo sia davvero impossibile esprimere un giudizio. Il semplice fatto che inizialmente mi sia preoccupato della salute della vecchietta mi è parso davvero curioso dato che non ci sono informazioni su schermo, né servono dato che non sono previste skill o statistiche da tenere sotto controllo.

Ovviamente mi sono incuriosito ed ho scoperto che la software house responsabile di questo progetto si chiama Tale of Tales. Sono belga ed hanno in cantiere un gioco online liberamente scaricabile qui dal titolo The Endless Forest, in cui tutto quello che si deve fare a quanto pare è vestire i panni di un cervo in una foresta (non l’ho ancora provato). Ma ancora più interessante mi sembra The Path, titolo horror dal nome abbastanza indicativo se si pensa a The Graveyard appunto. Lo stile grafico mi attira e credo proprio che lo proverò.

domenica 23 agosto 2009

Marta sui Tubi - Taurianova (RC) - 22.08.09


Quello di ieri sera è stato il secondo concerto dei Marta sui Tubi a cui ho assistito. Dopo Messina al compianto 5/4 a Marzo dell’anno scorso, quello di Taurianova in provincia di Reggio Calabria era un appuntamento che non potevo certo farmi sfuggire. Il Nudi e Crudi Tour mi aveva dimostrato per la prima volta quanto fosse vero ciò che si dice in giro: che “i Marta sui Tubi sono una delle migliori live-band italiane in circolazione”. Io direi meglio: “sono anche”. Per questo motivo venire a conoscenza nell’arco di poco meno di tre giorni che il gruppo capitanato dall’ottimo vocalist Giovanni Gulino e l’indemoniato menestrello Carmelo Pipitone si sarebbe esibito gratuitamente in piazza a pochi kilometri da casa mia non poteva che risvegliare le mie sopite voglie di esibizioni dal vivo.

Sopite a causa della calura estiva ovviamente, l’ago del serbatoio della mia macchina che annaspa continuamente in riserva, nonché un triste e oscuro ricordo legato al concerto messinese di cui sopra. In quella circostanza, infatti, a coronare disastrosamente un’esibizione che fino a quel momento era da considerarsi più che travolgente e brillante, giunse una sparata del cantante Giovanni Gulino che sulle note dell’intro della bellissima Post (a detta di chi scrive una delle più belle canzoni italiane degli ultimi anni) pensò bene di abbandonare il palco con un laconico “Questa non ve la meritate” rivolto al pubblico pagante. Il chitarrista Carmelo Pipitone e il bravo e pestoso batterista Ivan Paolini conclusero il pezzo da soli, assicurandoci dopo il concerto che faceva tutto parte dello spettacolo.
Sarà … anche se resta il dubbio sul perché il talentuoso Gulino non sia tornato indietro per ringraziare il suo pubblico.

Insomma, è con questo retrogusto amarognolo -ma tanta fiducia sull’indubbia qualità artistica del gruppo- che ieri ho deciso di dedicare gli ultimi dieci euro di benzina rimastimi a questa band sicula. Tra l’altro ero curioso di assistere all’esibizione live dell’organista Paolo Pischedda.
I miei propositi sono stati ulteriormente ripagati non solo dallo scoprire che il suddetto Pischedda è anche un ottimo violinista, ma dall’esibizione del bravissimo violoncellista di cui, non me ne voglia, purtroppo dopo appena cinque ore di sonno adesso non ricordo il nome.
L’esibizione è stata decisamente superiore a quella della data messinese. Oltre alle stupende interpretazioni dei pezzi dell’ultimo album (del resto si trattava del Sushi & Coca Tour), brillano Stitichezza Cronica improvvisata sui titoli del numero di Repubblica della giornata di ieri; la cabarettistica interpretazione della già eclettica Dominique (Canzone di Gelosia); il bagno di folla di Gulino e le sue battute di spirito e non; l’assolo del violoncellista; la (finalmente) ottima interpretazione di Post, introdotta da un omaggio a Gigi Tenco con la sua Vedrai vedrai: con particolare compiacimento personale, dato che mi capita spesso di pensare al cantautore genovese ascoltando questo pezzo.
Ho sentito la mancanza di pezzi come Volé, Il giorno del mio compleanno, Una donna e la sua semplicità, ma immagino si sia voluto dare più spazio ai nuovi membri del gruppo; anche se non sono mancate le stupende Vecchi difetti, 31 Lune e Cenere, arrangiate in un modo un pò più ricco per l’occasione.

Concludendo, il concerto di ieri sera ha confermato tutto quanto di buono si possa dire o pensare dei Marta sui Tubi, band originalissima che riesce a trasmettere tutta la carica e il talento artistico di cui ogni singolo membro del gruppo è capace. Musicisti di rara bravura ed estro che si sono anche concessi al pubblico nel post-concerto con l’umiltà, la strafottenza e l’ironia di chi acconsente di fare entrare i fan nel backstage. “Sì, ma solo le ragazze”.
Non nascondo che lo avrei fatto anch’io :)



sabato 22 agosto 2009

Addio alla Suonatrice Jones


Quello che mi importa è grattarsi sotto le ascelle è il titolo di un’intervista fatta da Fernanda Pivano a Charles Bukowsky nel 1980. Dal titolo di questo piccolo libretto edito da Feltrinelli il blog in cui state navigando trae il suo nome. Sebbene sia forte la tentazione di fermarmi a parlare di questa piccola grande chicca per i lettori del poeta e scrittore americano, vorrei sfruttare questo spazio per rendere un modesto e sentito omaggio alla scrittrice, giornalista, traduttrice e critico letterario di origine genovese.

Spentasi martedì scorso all’età di 92 anni, Fernanda Pivano ci lascia un patrimonio letterario di inestimabile valore. E’ grazie alla sua sensibilità, infatti, che oggi autori come Hemingway, Melville, Kerouac, Bukowski, Masters, Faulkner, Fitzgerald, Anderson, Stein, Corso, Ferlinghetti, Ginsberg, Palahnjuk, Ellis, e tanti altri fanno parte del nostro bagaglio culturale comune. In particolar modo la morte della scrittrice mi colpisce, sia per la passione che da sempre provo nei confronti della letteratura americana, sia per la stima che ho per questa donna intelligente e vitale, che può vantare tra i suoi maestri gente del calibro di Cesare Pavese e Nicola Abbagnano.

La sensibilità della Pivano la rendeva  in grado di cogliere le nuove istanze giovanili. Su tutto la sua traduzione e prefazione alla prima edizione italiana di Sulla Strada, opera fondamentale della beat generation.  
Non era accademica, aveva bisogno di un contatto diretto con i suoi scrittori. Ci parlava direttamente, ne era amica e sentiva il bisogno di andare al di là della semplice parola scritta, di cogliere quella linea di confine (spesso labile) tra il vissuto e la carta stampata. In una delle battute conclusive di Quello che mi importa è grattarsi sotto le ascelle la Pivano si rivolge a Bukowski dicendogli:

“Dai tuoi libri pensavo che tu fossi aggressivo e invece sei tollerante. Ed è una bella sorpresa per me. Peccato che questa intervista è stata troppo corta. Forse Joe mi porterà qui di nuovo la prossima volta che vengo a San Francisco. Così la prossima volta non dovrò pensare al registratore e potremo passare un paio d’ore soltanto a chiacchierare. Non posso dire a bere perché io bevo solo soda, quella che noi chiamiamo acqua minerale. Hemingway mi diceva sempre ‘Figlia, questa non me la dovevi fare’.”

Non solo, Fernanda Pivano fu un’attenta conoscitrice di musica leggera, tra i primi e più importanti critici e intellettuali italiani a riconoscere dignità letteraria alla canzone d’autore. A lei dobbiamo, infatti, Blues, ballate e canzoni (Newton Compton), in cui sono presenti le traduzioni di tutte le canzoni di Bob Dylan fino al 1972.
Dell’amico cantautore Fabrizio De André era solita dire di considerarlo il più grande poeta italiano del secondo novecento. Importante il suo contributo durante la lavorazione del concept album Non al denaro, non all’amore, né al cielo, i cui testi lo stesso De André volle sottoporre all’attenzione della Pivano, curatrice della traduzione italiana di quella Antologia di Spoon River a cui l’album è ispirato. Occasione questa in cui nacque anche la profonda amicizia con il cantautore genovese, che porterà la scrittrice a dire durante la premiazione al Club Tenco del 1997:  

“Sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano”.

Chiudo qui per mancanza di spazio e di tempo e forse anche per pudore. Fernanda Pivano è stata ed è una della figure più importanti del panorama letterario italiano e internazionale: ha attraversato tutto il '900 cogliendone i fermenti, traducendone (è il caso di dire) a modo suo il messaggio di vita dei suoi interpreti, senza però tradirli mai. Donna di straordinaria apertura mentale a cui dobbiamo molto e a cui rendo questo modesto ricordo e consiglio la lettura dei suoi diari.

Addio Fernanda, ci mancherai.

venerdì 21 agosto 2009

Recensione Cloverfield - 19/02/2008


A distanza di quasi dieci anni da quel The Blair Witch Project che rivoluzionò ed ampliò il concetto di mockumentary, imponendosi all’attenzione del pubblico per l’insolita quanto originale scelta di girare l’intero film attraverso l’obiettivo di un’unica cinepresa amatoriale, J.J. Abrams (attore, regista e produttore famoso per la serie televisiva Lost) e il quasi sconosciuto Matt Reeves, lanciano sugli schermi dei cinema di tutto il mondo Cloverfield: pellicola che all’opera di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez deve molto.
Forte di una campagna pubblicitaria davvero azzeccata, Cloverfiled narra la storia di un gruppo di amici dispersi per le strade di New York a causa dell’imponente attacco di una mostruosa creatura di ignota provenienza.
Va detto subito come scrivere una recensione su Cloverfield equivale a un lungo spoiler. La ripresa tramite un'unica telecamera amatoriale e la presenza del mostro sono i punti cardine dell’opera di Abrams che la sapiente campagna pubblicitaria (o viral marketing) -primo degli elementi che accomunano il film a The Blair Witch Project- ha intelligentemente mistificato. Se di quest’ultimo ai tempi della sua uscita nelle sale poco si sapeva tranne che fosse un film e non un vero documentario (da qui la definizione di mockumentary), in Cloverfield lo stesso gioco del silenzio e dell’indizio fuorviante è stato reso prolifico al fine di creare un livello di aspettativa davvero alto.

"... scrivere una recensione su Cloverfield 
equivale a un lungo spoiler ..."

Per  tale motivo scoprire dopo la prima mezz’ora di proiezione in cosa consista la minaccia prospettata dalla campagna pubblicitaria porta per forza di cose lo spettatore a considerare la pellicola da una prospettiva completamente diversa. Il fascino de Il Mistero della Strega di Blair si giocava tutto sull’incomprensibilità degli accadimenti ripresi dal limitato occhio della telecamera, mentre Cloverfield rivela praticamente subito le sue carte più vincenti sgretolando quanto di buono era stato fatto in fase di marketing. Ciò che va analizzato di Cloverfield non è la scelta di rilanciare un genere come quello dei monster o disaster movies tramite la semplice introduzione della sola telecamera a spalla, piuttosto le motivazioni che portano a distanza di nove anni a fare della strega di Blair un mostro alto venti piani. In mancanza si potrebbe dire fin da subito che Cloverfield è un film di poco valore, una trovata molto meno originale di quanto ci si possa attendere in un primo momento.
Perché girare Cloverfield nel 2008 quindi? Se ci voltiamo indietro, dal 1999 ad oggi molti sono gli eventi che decontestualizzandolo hanno reso The Blair Witch Project un prodotto originale quanto un sasso lanciato in uno stagno. Dal il 1999 a oggi il mondo ha conosciuto, il Grande Fratello e il fenomeno dei Reality, l’Undici Settembre, lo Tsunami, La distruzione di New Orleans, You Tube, il Videotelefonino, l’affermarsi del documentario come prodotto di massa e –per restare in un campo che sentiamo più nostro- il dilagare degli FPS come genere più diffuso nel mondo dei videogiochi.
Se The Blair Witch Project era riuscito ad affrontare egregiamente un tema molto moderno come quello dell’ossessione giovanile per il video, la percezione di sé stessi e della realtà che ci circonda filtrata tramite un obiettivo, Cloverfield riprende questo concetto e lo evolve alla luce dei fatti appena citati.
Scene come quella della distruzione di New York e il senso di smarrimento dei protagonisti nell’apprendere tramite i teleschermi presenti all’interno di un negozio degli eventi che si svolgono a pochi metri di distanza da loro, possono considerarsi né più e né meno che precisi richiami alla storia appena trascorsa raccontataci dai telegiornali. Immagini riprese grazie a videofonini, macchine fotografiche e videocamere di amatori sparsi per il globo, immagini che del globo hanno fatto il giro in poco meno di un click, che con estrema semplicità possiamo rivedere oggi in qualsiasi momento collegandoci ad internet.
Abrams e Reeves sembrano dirci che al giorno d’oggi Godzilla non può più esistere, né tanto meno farci paura. Abbiamo ancora negli occhi le riprese dei videoamatori al riparo dall’alto di un edificio che catturano le immagini dell’acqua che trascina via persone e cose durante il post - Tsunami delle Maldive. Su tutti penso al World Trade Center che implode su se stesso.
Immagini divenute comuni, quasi normali, che Hollywood non può più raccontare con il grandangolo. Scene che in Cloverfiled non terrorizzano quanto dovrebbero.
Ed è proprio questa una delle chiavi di lettura del film, l’obiettivo della telecamera come simbolo di un voyeurismo estremo: una ricerca dell’esperienza diretta che non è cinematografica (poiché il cinema che narra sensazioni parla ben altro linguaggio) ma mimica. Un porre sé stessi al centro degli eventi come testimoni: la telecamera come coperta di Linus, archetipo moderno dell’esistenza.

"... l’obiettivo della telecamera come simbolo 
di un voyeurismo estremo ... "

Così la realtà prende il posto della fantasia e il cinema non può che adeguarsi a questo stato di fatto: la scena del cameraman quasi schiacciato dal piede di Godzilla nell’omonimo film di Emmerich è ormai storia passata, cinematograficamente irripetibile, forse un simbolo premonitore dei nostri tempi.
Cloverfield non si presenta come una ricerca di realismo, in equilibrio sulla c.d. sospensione dell’incredulità serve una parossistica simulazione del reale.
I molto giovani attori, ritratti in un quadretto di vita mondana secondo una sceneggiatura che vede la difficile storia sentimentale tra Rob e Beth porsi a cornice dei fatti narrati, inquadrano subito la c.d. generazione d’oggi: giovani, sconosciuti e pieni di complessi, con tanto di MySpace personale.
Hud, il timido amico di Rob dall’emblematico nome, viene incaricato di effettuare le riprese. E’ poco più di un ragazzotto con ancora qualche problema adolescenziale, incapace di rivolgere più di due parole di fila a Marlene, oscura ragazza di cui è infatuato. Rob è un trentenne da sempre innamorato della sua amica Beth, in procinto di partire per il Giappone mettendo così una grossa pietra sopra ai propri problemi sentimentali. Beth, invece, è la tipica ragazza bella, difficile e apparentemente inarrivabile, di cui tutti –pubblico compreso- si innamorano a prima vista.
Personaggi insomma troppo banali, irreali quasi, buoni solo per un reality o una fiction, che la TV ci ha insegnato a riconoscere come reali, tirati via con forza da una qualsiasi puntata di Friends.
Emblematica ad inizio film la battuta di Beth rivolta a Rob che la riprende, augurandosi che il filmato non finisca su Internet. Emblematico, lo dicevamo, il nome Hud dato al principale portatore della videocamera: l’hud in termini videoludici rappresenta tutte le informazioni visualizzabili in sovrimpressione, o –come avveniva nell’ottimo tie-in del King Kong di Peter Jackson- tramite voce.
Intelligente l’uso fatto ancora una volta della telecamera che, secondo la storia del film, registra sopra le riprese effettuate da Rob e Beth qualche giorno prima, con spezzoni di quel filmato che alle volte si sovrappongono alla storia principale alla stregua di flashback, fino all’amaro quanto brillante finale.
La scelta registica di fondo, insomma, diviene anche un espediente per giocare con il tempo e con il pubblico, là dove solo quello che la telecamera riprende ci è dato sapere: con conseguenti  e repentini slittamenti temporali dovuti ai momenti in cui Hud è costretto a interrompere le riprese.
Da ultimo, il ritmo frenetico degli eventi narrati fa di Cloverfield un film non per i deboli di stomaco: gli sballottamenti della telecamera rendono difficile lasciare il cinema senza avvertire una strana sensazione di intontimento.

" ... solo quello che la telecamera riprende ci è dato sapere ... "

Nonostante tutto il film non mantiene le promesse fatte e in parte lo avevamo anticipato. Se i primi minuti del film tengono vivo l’interesse, con scene molto belle come l’inquadratura della testa mozzata della Statua della Libertà, dal secondo tempo in poi qualcosa sembra perdersi. La sceneggiatura fa molto poco per mantenersi viva, toccando più o meno gli stereotipi dei film del genere e affidando sempre alla telecamera quel quid che differenzia Cloverfield dal resto, per poi riprendesi sul finale. L’idea che balza in mente dal secondo tempo in poi è che Cloverfiled non sia tanto un film catastrofista girato con una telecamera amatoriale, quanto una ripresa amatoriale di un film, per meglio dire, della realtà. Si va dalla fiction, all’horror alla Alien (in certi momenti si può benissimo tirare fuori il nome di Doom), al fanta-thriller, al dramma. Il tutto mal condito da una mano che tradisce le origini televisive delle due menti dietro alla pellicola, e da una sceneggiatura abbastanza -o volutamente- scontata.
Ovviamente privo di colonna sonora, Cloverfield fa un forte utilizzo degli effetti sonori. Quelli speciali sono di primissimo ordine, impreziositi da una fotografia dai toni abbastanza saturi che rende bene l’idea di un filmato amatoriale, senza però  tradire le velleità cinematografiche della pellicola.
Allo stato dei fatti Cloverfield rappresenta un’opera concettualmente perfetta, povera solo di una sceneggiatura che non mantiene i ritmi di un film: rivelandosi anzi come l’ottimo concept dell’episodio pilota di una serie televisiva, senza fare nulla per nascondere la sua natura di cliffhanger.

Atto II

Tanto per assumere il vizio di postare ho deciso in questo primo periodo di aggiornare il blog con i piccoli e grandi successi ottenuti lungo la strada del suo completamento. Considerandomi come già saprete poco pratico di Blog e affini anche piccoli passi come modificare la barra in alto dell'intestazione di pagina sono traguardi di cui vado fiero.
Colgo l'occasione per invitare chiunque voglia a lasciare suggerimenti e considerazioni di qualsiasi tipo sullo sviluppo del blog.
Ho in mente di inserire alcuni vecchi articoli pubblicati su una web-zine abbastanza famosa, ma desidereri per questo creare un archivio apposito. Se qualcuno fosse così gentile da spiegarmi se e come ciò sia possibile si farebbe un amico. Grazie :)

Atto I

Giusto il tempo di prendere dimestichezza con i potenzi mezzi del web-log e sarò pronto. Questa è la mia prima esperienza più o meno seria come blogger e non so ancora dove né a che cosa tutto questo porterà. Ho sempre desiderato aprire un blog trovando poi sempre una scusa per rimandare, ma finalmente oggi mi sono detto: "vediamo almeno come si fa" ed eccomi qui. Devo dire che la cosa è stata meno traumatica del previsto e pressocchè indolore. Eccetto quando si sono scaricate le batterie del mouse, ma questi sono inconvenienti di cui non si deve tenere conto.
Per non macchiarmi del crimine di non dare almeno un colpo di pedale alla mia bici nuova ho deciso di scrivere queste cialtronerie qua. Per la direzione ancora non so. Scusate il contrattempo. A presto :)