lunedì 13 dicembre 2010

Il poeta è un fingitore?

Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,

nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo

gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

(F. Pessoa)

Questa lirica di Fernando Pessoa, oltre ad essere una delle sue poesie più famose, mi è personalmente molto cara. Chi sia Pessoa credo che lo sappiamo un po’ tutti, altrimenti vi invito a cercarlo su Wikipedia, enciclopedia sicuramente non al livello di una Treccani, ma che proprio per questo è molto più comoda per farsi rapidamente un’idea di ciò che si cerca. Dicevo, “Il poeta è un fingitore” , questo è un verso che ritengo di per sé molto scomodo: fa storcere il naso oppure sprofonda in un lungo silenzio chi lo legge per la prima volta. Le due diverse reazioni hanno la stessa genesi secondo me: sentirsi dire che il poeta è un fingitore ti inocula un dubbio nel cervello, con la stessa forza con cui si riceve un pugno. Perciò le reazioni non possono che essere due, il rifiuto o la constatazione di avere appena fatto tabula rasa di ogni tuo convincimento.
Nel secondo caso, non si può fare a meno di chiedersi, ma che diavolo vuole dire? Baudelaire, Shakespeare, Montale, Whitman, sono dei fingitori? In prima battuta è legittimo pensare che essendo loro degli artisti prima ancora che poeti, etimologicamente il ragionamento funzioni: la parola arte ha a che vedere con l’artificio, con ciò che è artefatto.

Però, la lirica non si ferma a quel verso, anzi subito dopo mescola così tanto le carte da ricordare molto da vicino quei meccanismi logici chiusi che sono soliti utilizzare i maghi quando vogliono ipnotizzare qualcuno: il cervello va in loop. Il resto del componimento si sviluppa mettendo sempre più in crisi il lettore (“il dolore che davvero sente”? “illudere la ragione” ?), ma senza entrare nella disanima di tutte le strofe arrivo direttamente al punto.
La grandezza di questa poesia, per come la leggo io, è la sua capacità di ergersi a memento mori della scrittura: è proverbiale quasi. Quando ti accingi a scrivere qualcosa non puoi fare a meno che sentirti risuonare nella testa quel “fingitore”, come se qualcuno ti puntasse continuamente il dito addosso accusandoti di esserlo. L’ho sempre interpretata come un j’accuse rivolto alla coscienza. Il poeta ha il dovere di dialogare con la propria coscienza e scrivere secondo sincerità. Un atto d’accusa alla retorica, al sentire secondo convenzione.

Tutti quanti siamo in grado di comprendere che si è tristi se muore una persona cara ed erigere così versi monumentali di pianto, ma io credo che un vero poeta abbia la capacità di dire: “io sono contento”, oppure, “appena l’ho saputo mi sono fatto una sonora risata”. Un po’ come se rispondesse alla domanda “ma è triste o deve esserlo?”
Ovviamente il mio esempio vuole essere estremo proprio per comprendere questo stacco. Mi viene in mente quella considerazione di Ryle (anche qui Wikipedia :P) sul mito, che lui considera come una rappresentazione dei fatti secondo un idioma non appropriato: ragione per cui se si vuole demitizzare qualcosa non si devono negare i fatti alla base del mito, ma descriverli nel modo giusto. Un po’ come diceva Funari, se uno è stronzo lo devi chiamare stronzo. Allo stesso modo, credo che “Il poeta è un fingitore” di Pessoa sia una descrizione del mito del sentimento o, ancora meglio, il mito del poeta.
Da qui il passo successivo, c’è retorica anche nel credere nella figura del Poeta con la ‘p’ maiuscola. Chi scrive una poesia è in primo luogo soltanto questo, un uomo che scrive una poesia. La sua capacità di riversare quanto di umano c’è in lui in quei versi ne fa un poeta. L’umanità non è fatta solo di buoni sentimenti: è umano odiare, provare rabbia o risentimento, e persino sbagliare.

Non so se mi sono spiegato, ma ciò che cerco di dire è che la grandezza di un poeta va ricercata nella genuinità del sentimento espresso, il suo mettersi a nudo con tutte le contraddizioni che gli passano per la testa, chiamare le cose per come sono (o per come esclusivamente lui ritiene che siano). Questo, però, non significa chiarezza, non ha a che vedere col concetto dell’onestà intellettuale, a meno di non considerarla un monito a sé stessi. L’onestà intellettuale non è arte, la quale resta sempre e comunque un artificio, è piuttosto un metodo critico e come tale va usato.

Quando leggo una poesia su un sito qualsiasi e la trovo retorica, priva di quel senso di attraversamento dello specchio che cerco in una lirica, avrei voglia di chiedere all’autore “che cosa stai nascondendo a te stesso? Possibile che non hai niente di tuo da dire?” Lungi da me ovviamente  voler fare psicologia spicciola, ma il poeta è un fingitore mi fa pensare sostanzialmente a quella che, in maniera rappresentativa, possiamo immaginare essere la maschera del dolore.  

A questo punto mi sorge un dubbio: se siamo d’accordo sull’idea che il poeta dovrebbe rifiutarsi di indossare maschere preconfezionate,  considerando che fare arte (e perciò anche scrivere una poesia) è pur sempre una sostanziale finzione, è giusto credere per ciò stesso che sia assolutamente necessario andare in giro a volto scoperto?  

(bob) 

sabato 4 dicembre 2010

Non penso tu sapessi di essere in questa canzone...


"E tu da cosa ti vesti domani sera?"

Sono ormai convinto che questa domanda d'ora in poi mi verrà posta ogni quarto d'ora dalla ragazza qui al mio fianco. Più non le rispondo e più continua ad ingollare tequila neanche fossimo su uno dei tavoli di "Dal tramonto all'alba". Solo che, al posto del vampiro di turno assetato di sangue, devo combattere la sua irrefrenabile voglia di annichilirmi svelandomi dubbi circa l'annosa scelta tra le ultime "serie tv" di grido.
Tempo due minuti e mi chiede se anch'io sono un appassionato di "Lost", oppure "Boris".

Come faccio a non essermi appassionato a "Boris"?

Come fai tu a non essere mai stata osservata dal mostro pescato nella "Dolcevita"?

Mentre vorrei dirle che "Twin Peaks" (come del resto Bruce Springsteen) vorrei lasciarmelo per i 40 anni, sopraggiunge rapida la domanda : "ancora non mi hai detto da cosa ti vesti domani sera..."

Domani sera mi vesto da penna e mi faccio incartare così qualcuno mi regala alla tua migliore amica.

Sì, proprio quell'amica che ora si sta per avvicinare. Magari ora attacca conversazione, e dopo quattro secondi di parole inutili viene a chiedermi se sono su Facebook, così mi aggiunge.
Con uno scatto fulmineo la afferro per i capelli come si fa con i "precog" di "Minority Report", lei mi confessa che senza Tequila bum - bum la sua vita non ha senso, io cado a terra colto da una crisi mistico - sensoriale neanche avessi bevuto dalla lisergica SevenUp offerta da Leary agli "Ash Ra Tempel".

Fuori c'è il padrone del pub in cui finalmente mi accorgo di essere. Sgasa a tutta birra con il suo Suv sollevato a sette metri da terra, reduce da un tour de force che lo ha portato in soli cinquanta minuti a scorgere un migliaio di targhe, sempre le stesse, sempre diverse.

Non che per me ora non valga la stessa cosa. Il Chiappucci che si involava al traguardo a premi nella discesa della Stazione Tuscolana, prima del Gran Premio della Montagna di "Colle Pontelungo", è stato sostituito a fine primo tempo. Non per niente "pensavo è bello che dove finiscano le mie scarpe debbano in qualche modo incominciare una frizione, un freno o un acceleratore". Cinque metri e poi staccare.
Cinque metri e poi staccare. Quattro metri e poi staccare di nuovo. Clacson. Sono stato forse io a premerlo? Sarebbe una figata se fossi stato io ma l'avessi affibbiato alla donna isterica che da dietro vorrebbe tanto tamponarmi, e invece non lo fa perchè l'oroscopo del giorno le ha pettinato la coscienza.

Uscendo fuori dal pub, le mura di cinta sono piene di scritte. Riesco a scorgerne solo una, nel mentre una delle due ragazze (non saprei dire quale anche perchè distinguerle sarebbe un'impresa) continua ad assillarmi con tipiche frasi da ubriaca sconnessa. E' una frase alquanto scurrile, casualmente proprio ciò che vorrei dire alla suddetta zanzara odorosa di tequila.

La cosa più sorprendente è che, non appena si accorge di essere ormai finita in questo racconto (o canzone?), si gira verso il padrone del pub che da dentro la guarda con un sorriso inquietante.

Ha appena messo sul giradischi "The rise and the fall of Ziggy Stardust".

Nel momento in cui il Duca Bianco le sta cantando "I think I saw you in an ice-cream parlour, drinking milk shakes cold and long.
Smiling and waving and looking so fine, DON'T THINK YOU KNEW YOU WERE IN THIS SONG...", il sogno è al termine, e noi con lui.



(Michelangelo)

lunedì 22 novembre 2010

Da quella volta

Fernando appisolato in bagno
col giornale come se fosse una foglia
di là lei che aspetta

non lui, ma qualcosa che irrompe
violento come uno squillo di tromba.

E dice sono trentatre giorni

“e trentatre sono gli anni di Cristo”
pensa lei “se è per questo”, mentre di là
Fernando sogna in bagno
di guidare una motocicletta. Di quel giorno

che guidò la motocicletta
mentre suo padre non vedeva
e mise sotto un cane
che morì subito e fece una puzza tremenda
per una settimana. E adesso il cane era vivo
ma puzzava ancora come quella vecchia
motocicletta che non aveva più ripreso
da quella volta

e suo padre che morì convinto
di averla guidata solo lui per tutta la vita
perché proprio non voleva saperne
niente. Lei

bussò piano per tre volte ed entrò
come qualcosa che stagnava nel sogno.
“Trentatre giorni” disse “Buona domenica”
fece lui ormai sveglio.

(Bob)


giovedì 2 settembre 2010

Che nicche e nacche?

Stanotte di fronte al computer spento
sei venuta a trovarmi
e mi hai chiesto del tuo scialle nero,
che ti eri presa di freddo
tutta la notte a passeggiare. Ti ho detto
che se l’era preso il gatto
sfacendolo con le unghie mentre cercavo
di liberarlo. Ma non mollava. Allora ho iniziato
a dargli botte, più botte che potevo
e più la bestia stringeva forte. Era il tuo
gatto e pian piano con le unghie
diventava nero come lo scialle anche lui,
finché si è perso tra le maglie che la zia
un giorno come tanti
un po’ per noia ti aveva fatto. Che colpa
ne aveva il gatto? Non lo so.
Ma come te un pomeriggio da un momento
all’altro non lo abbiamo più rivisto e tu
ne hai pianto così tanto che non credevo
ci si potesse disperare
per una cosa come questa. Non credevo
potesse esserci in te un momento di resa,
e non solo dal freddo che passeggiando
questa notte mi ha sorpreso a ripensarti
per strada, fino a risalire nella mia stanza
dinnanzi al monitor del computer ancora
spento. Come una cosa straordinaria.

(bob)
  

giovedì 26 agosto 2010

Jellyfish


L'aereo è in pieno volo per Stansted, e l'aria condizionata, sparata dalle gambe fino alla cervicale, mi indispone alquanto.

Si avvicina una delle hostess. Mi aspetto mi dica che, oltre alle meravigliose sigarette senza fumo, c'è un'ampia gamma di maglioni in lana merinos. Mi propone invece dei cheesburger di plastica, insieme a dei gioielli, per via del fatto che ce la metto tutta nel fare finta di stare nel mio microclima ideale. Accanto a me, una ragazza inglese ha raggiunto i centocinquanta chili già prima di aver dato il suo primo bacio. Sfoglia avidamente uno di quei tabloid inglesi ottimi per lobotomizzarsi il cervello. Tempo due minuti e giace stremata con la bavetta che le fuoriesce dalla bocca. "Cazzarola" penso, "se fa anche a me quest'effetto, quasi quasi poso il mio Calvino e glielo rubo dieci minuti". Il risultato è che la temperatura si alza ulteriormente, e non posso fare a meno di posare il tabloid guardando la balenottera arenata sul sedile con molta più confusione di prima.

Il cielo è una tavola blu da qua sopra.

Mi accorgo che mancano solo la stuoia e l'ombrellone per completare il quadretto "tipo da spiaggia".
Non sono mai stato così abbronzato in vita mia.
Non che mi faccia piacere essere abbronzato.
Diciamo che prendere un pò di sole fa indubbiamente bene, ma non capisco il motivo per il quale ci si debba arrostire. Anzi lo so benissimo, e c'è solo un'espressione dialettale che rende bene il concetto :"Pi ll'occhiu ra ggenti". Capisco che stiamo per arrivare, per via di due cose : la prima è che l'aereo inizia a decelerare, la seconda è che veniamo catapultati in un banco di nebbia fitta e grigia.

All'atterraggio, ci metto venti secondi a ricordarmi che esiste l'autunno.

E' il 10 Agosto, siamo in Inghilterra.

La prima cosa che cerco, è un bar con del caffè da abbinare ad un cornetto. Sono o no un maledetto italiano? Non ci sono bar a Londra. Non esiste che tu sieda al tuo tavolo preferito, e il barista ti chiami per nome e ti chieda come è andato il weekend. Esistono invece le catene, con personale che non regge il più delle volte oltre tre mesi. Ricambio e precariato costante. Entro in una di queste catene che mi ricorda lontanamente quanto possa essere buono un cappuccino di prima mattina. Vado da paura, tengo la conversazione in perfetto "british style", fino a quando alla fatidica domanda, "What do you prefer?", rispondo in meridionalissimo accento : "Cappuccino". Senza che mi venga chiesto "aah, ma sei italiano?", il tipo inizia a parlare la mia stessa lingua.

Rincuorato dal fatto che, come lo diciamo noi italiani, "cappuccino", non lo dice nessuno, mi dirigo alla "National Gallery" a Trafalgar Square. I giorni prima, sette ore di "British Museum" (con annesso pranzo di venti minuti al ristorante dello stesso museo) e sei ore di "Tate Modern", non avevano spento la mia irrefrenabile voglia di essere colto, anche per pochi secondi, da una di quelle belle "Sindromi di Stendhal". La cosa assurda, forse non troppo, è che gli italiani (specie se fiorentini) si dice non possano quasi mai essere consapevoli di questa sindrome, dal momento che essa affligge principalmente gente non abituata ad essere "immersa" o a stretto contatto con bellezze artistiche. Si dice invece che essa riguardi spesso i giapponesi. Alla lunga mi rendo conto di quanto questo possa essere una cazzata, dal momento che davanti a me ho un gruppo di giapponesi in stile Alpitour, con più macchine fotografiche che peli di barba, tutti intenti a fare altro piuttosto che ammirare la "Cena di Emmaus" di Caravaggio. Anzi, scorgo in fondo alla sala una tipa così concentrata nel togliersi l'insalata dai denti, che ha le pupille completamente rivoltate all'in sù.

Nell'ultima cartolina ci siamo io, B. e L.
Ci troviamo al "Saint Thomas Hospital" di Westminster. In sala d'attesa ci sparano una partita del Celtic, e ci sfiora per un attimo l'idea di andare a prendere delle birre. Quando arriva il mio turno, la dottoressa sembra uscita da "E.R", insieme a tutto lo staff che ha più o meno le sembianze di George Clooney. Mi verrebbe da fermarne uno per chiedergli quando iniziano con le riprese. Invece devo spiegare alla dottoressa Marion, che sono stato punto da una medusa una settimana fa nel Sud Italia, e che, non lavandomi molto bene, il risultato era quello splendido quadro in altorilievo stampato a fuoco vivo sul polso e sul fianco. Alle parole "nuotare" e "Sud Italia", Marion si è fermata un attimo assorta nel guardare le ferite.
E' bastato un discreto colpo di tosse per riportarla al presente.

Al ritorno, B. e L.,in pieno clima partita, sono quasi dispiaciuti di doversene andare dall'ospedale.

Marion fa capolino dalla porta, ha ancora lo sguardo perso nel vuoto.

Nel corridoio incontriamo la troupe al completo, dal regista ai truccatori.

Vorremmo fermarci ad assistere all'inizio delle riprese, ma fuori c'è Gotham City, e Paranoid Park sta per riempirsi di ragazzine che ti offrono l'accendino nascosto fra le tette.


(Michelangelo)

lunedì 16 agosto 2010

Quando l'amore brucia l'anima


Uno dei sogni più belli di sempre. Come ero preso da quel sogno. Non me lo ricordo ma ero preso. Parlavo come uno che ne sa più di tutti. Qualcosa che piano piano delineava il suo mosaico. Era un sogno bizantino. Avvolto nel caldo. Con la finestra chiusa perché qualcuno brucia plastica tutta la notte e si riempie la casa di fumo. Non so dove stia e non posso farci niente. La tengo chiusa e basta. Un lago di sudore.
Nuotavo dentro questo sogno caldo. La luce dell’alba sembrava non farcela. Op, luce, op. Dai che ce la fai. E niente, non ce l’ho fatta io. Mi sono alzato.
Mi svegliavo e dormivo un’altra volta. Raffreddato cotto il quindici di agosto. Mal di gola. Naso chiuso. Cotto. Sudato. Di accendere l’aria condizionata non se ne parla. Una tortura. Come trovarsi in alto mare disidratati e non poter bere. Stavo ancora nuotando. L’oceano e poi forse chissà, una spiaggia.
Il fantasma di Johnny Cash che mi perseguita. C’ho i miei fantasmi John non ti ci mettere anche tu.
Walk Hard, parodia di Walk the line, biografia del cantautore americano. Dall’omonima canzone. Non lo sapevo. E’ stato un caso beccare proprio oggi un programma in TV che ne parlava. Avrei continuato a crederla un’opera di fantasia se non mi fossi alzato. Che strano Johnny. Fa bene alzarsi.
Tuo fratello segato in due Johnny. Come si fa? Non era colpa tua, ma dico, come si fa a tirare avanti. Un fratello segato in due. Mah… Meglio lavarsi i denti.
Avrei proprio bisogno di un antibiotico. Uno spicchio d’aglio, qualcosa. Ho due occhi che piangono da soli. Sì, dovrei fare qualcosa per questo raffreddore. Le fottute tonsille. Sto uscendo pazzo. Vedere l’alba mi indispone. Mi deprime. Alto basso, alto basso. Questo mi fa pensare l’alba. E’ una sfumatura. Una sospensione che non lascia molto spazio alla fantasia. Che giorno sarà?
Sarà giorno, e tanto basta. Aliti puzzolenti. Colazioni. Donne struccate. Piatti da lavare. Cose da mettere in moto. Il cervello che stenta. In diesel da molto tempo. Qualcuno tossisce. Probabilmente sono io.
Dicevo, oggi mi tocca lavare i piatti, uscire per fare la spesa, studiare. Non ce la faccio, ma devo. Forse una doccia mi tirerebbe su. Sicuramente non giù. Però mi secco.
Vorrei fare tante cose, ma mi sento in un corpo non mio. Sono pure dannatamente eccitato, senza nemmeno la forza per farmi una sega. Forse è meglio fare la cacca. In che corpo sono capitato? Aiutami John.
A diciotto anni ero capace di giocare tre partite di calcetto e poi uscire la sera. Bere anche, e finirmi un pacchetto di sigarette. Poi il giorno dopo come se niente fosse. Altra partita di calcetto, studiare, scopare.
Ero una fottuta macchina del cazzo. Studiare, scopare, giocare. La bestia era dentro.
L’arancino piccante che più piccante non si può. A me non piace neanche l’arancino, ma questo brucia come se ti rimettesse a nuovo. Ti nutre ancora prima di masticarlo. Come resistere? Sapevo che me ne sarei pentito oggi stesso, ma ho ceduto. D’estate è una fatica anche cagare, però se sei in giro con gli amici, in compagnia insomma, te ne freghi del giorno dopo al cesso. E’ un’altra storia. Un altro momento.
Ora però dovrei davvero fare qualcosa. Col culo in fiamme e il ventre sgonfio. Sono ancora le otto, c’è tempo prima che il mondo si metta in moto. Tra un’oretta circa inizieranno a telefonare. Chi non importa. C’è sempre qualcuno che deve chiamare e rubarti un po’ a te stesso. E’ una questione di ritmo, è questo che non capiscono. Ed io non dovrei sprecare il mio tempo scrivendo, tanto il sogno non lo riacchiappo.
Johnny mi sei debitore in un certo senso. Non scherzo. Se non fossi morto John, non starei qui a dirtelo.

(bob)

giovedì 12 agosto 2010

"Adesso poi loro dicono che sono pazzo"

E’ da ieri che non faccio altro che pensare alle cose che mi danno il senso del ridicolo. Trovo ridicolo ad esempio che undici miliardari che corrono dietro a un pallone da professionisti facciano figure da cioccolatai in mondo-visione. Trovo ridicolo preoccuparsi per loro. Dire, correre dietro a un pallone da professionisti. Cioccolato per favore.

Trovo ridicola la barista brasiliana bionda del finto pub inglese di ieri sera che se la tirava che nemmeno Gisele Bundchen. Ridicolo non averci provato solo perché lo trovo ridicolo. E’ ridicolo svegliarsi dopo quattro ore di sonno. Trasformare un’uscita di poche ore con amici in un anticipo alcolico del fine settimana. Trovo ridicoli gli orari da rispettare e i postumi che ti tolgono la concentrazione. Chi beve per sentirsi grande o allegro. Chi beve la birra messa da parte per festeggiare. Chi beve.

In generale trovo ridicole molte cose. Le scarpe e il luogo comune per cui le donne vanno matte per queste cose. Esistono anche le borse, per esempio. Mi fa ridere pensare ad una donna che se ne va in giro con una borsa e un paio di scarpe dentro. Trovo ridicolo voltarsi a guardare il culo di una. L’occhio che scivola sulle tette mentre parli. Pensare, magari vuole che le guardi le scarpe. Non dentro la borsa, le scarpe. Ma le scarpe non erano dentro la borsa? Uff. Sono cose inevitabili. Trovo ridicolo dare ragione ad un luogo comune. Anzi quello no, mi infastidisce. Però trovo ridicolo finirci dentro. Un uomo entra in un caffè. Splash. No, io ho sempre detto pluf. C’è una spiegazione scientifica al riguardo che adesso non ricordo. Insomma è ridicolo essere retorici e non saperlo. C’è da fidarsi.

Trovo ridicolo che non ci siano più le mezze stagioni. Trovo ridicola Loretta Goggi che canta Maledetta primavera. E’ ridicolissimo pensare che in realtà ci sono solo mezze stagioni e che Loretta Goggi era un mio sogno erotico da bambino. Anzi se penso a Loretta Goggi. Ah, come vorrei che Loretta suonasse in questo momento alla mia porta. Quanto sei sexy Lory. Scusa il pigiama.

Sono ridicoli gli animalisti, gli ambientalisti, i pacifisti, i comunisti, i fascisti, i qualunquisti, i fanatici religiosi, i borghesi e i massoni. La dietrologia. E’ ridicolo non preoccuparsi della felicità umana. Dire: io non credo nell’amore. E’ ridicolo pensare che ogni volta che qualcuno dice: io non credo nell’amore, da qualche parte un poeta, un musicista, uno scultore o un pittore tirano le cuoia. Sono ridicoli i poeti, i musicisti, gli scultori e i pittori. Non sono gli unici a tirare le cuoia, questo è certo. Esistono anche le fate.

Io non credo nelle fate. SBLAM! Secca. Io non cre… presa di striscio. Do nelle fa… a terra ma respira ancora. Te! Requiescat in pace.

Trovo ridicolo chi un giorno si alza e dice: sono un artista. Trovo ridicola la mancanza di pudore. I reading di poesia. Le mostre fotografiche. Le mostre sull’antico Egitto. Il pubblico. I lettori. Chi medita. Chi trova fastidiose le vuvuzela. Chi si secca. Chi si entusiasma troppo facilmente. Chi cerca di sedare gli animi. Chi cita senza conoscere la fonte. Le tesi universitarie. Le università. La competizione. I rapporti umani. Le antipatie. Le zanzare. Chi si lamenta. Chi si dice disinteressato. I politici e chi si sente estraneo alla politica. Chi fa questioni di principio. Chi domanda ad un giovane, cosa farai da grande? Chi non partecipa. Gli assassini.

Trovo ridicola l’euforia. La paura della morte. L’amore tra genitori e figli dato per scontato. I vecchi lasciati morire di solitudine. L’odio smisurato che abbiamo per la vecchiaia. Trovo ridicola la bellezza. Mi sento ridicolo a dire, quel quadro mi eccita, non quella donna mi eccita. Trovo ridicolo proprio questo. Una persona che mi fa ridere mi entusiasma. Ridere è fare l’amore. Una donna che mi fa ridere mi innamora. Trovo ridicolo chi non ride. Trovo ridicolo il sesso. E’ ridicolo non ridere mentre si fa sesso. Vorrei fare l’amore con la Gioconda. Non posso farci niente. Sono malato di sesso ridicolo. È sesso artistico il mio. Arte sexy, come i calendari.

E’ veramente ridicolo che mi sia dovuto alzare per andare in bagno. Trovo ridicolo il corpo umano. Diamine se dio è l’artista che credo non può certamente averlo fatto lui questo corpo qui. O forse sì. Insomma, regna il caos. Se l’avesse progettato un essere umano il corpo ci avrebbe messo sicuramente due piccoli reattori sotto le ascelle. Un poggia bibite sul petto. E magari anche un sistema di refrigerazione. Se lo avesse progettato Will Carrier il nostro corpo oggi ce ne sbatteremmo delle mezze stagioni. Credo che dio abbia proprio sense of humor. E’ ridicolo immaginarlo, ma è così. Dio è ridicolo. Se è fatto come noi, soprattutto. Ve lo immaginate dio seduto al cesso? Io sì.

Trovo ridicolo pensare. Le religioni anche. Molti credono che la differenza tra religione e filosofia sia la dogmatica. Invece è una cosa ridicola. La religione è il pensiero della morte. La morte non esiste nella mente umana. E’ estranea. E’ ridicola. Provateci. Ogni pensiero mortifero è indubbiamente legato alla religione. Tutti i filosofi che sono giunti all’estrema conclusione della morte li inviterei ad andare su www.graziearcazzo.com. Siete ridicoli ragazzi. Sul serio.

Trovo ridicolo pensare Kant seduto sotto una pensilina ad aspettare l’autobus vicino all’uomo comune. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me. Ci pisciano in testa Manué. Ci pisciano e dicono che piove. Centilitri di universo.

Trovo ridicoli i miti. Battisti, De André, Che Guevara, Einstein, Dalì, Mozart, Pelé, Mussolini, Nietzsche, Dostoevskij, Leonardo da Vinci. Chi non ama Vasco perché lo considera un drogato. Chi si mette a ridere quando dico che Vasco è ermetico, è minimalista, è Ungaretti dentro Carver dentro Miller dentro un rutto che esce dal naso. E’ un millepiedi umano. E’ ridicola la gente che odia. E’ ridicolo pensare che solo Fabrizio De André e Dori Ghezzi sono andati a trovare Vasco Rossi in carcere. Dori Ghezzi cantava cover di Michael Jackson. È ridicolo chi non vive al tempo dei propri miti.

Trovo ridicolo chi mi parla di genio. Athanasius Kircher, George Best, Buster Keaton, Anacreonte, Valentine de Saint-Point, Piero Ciampi, Sherwood Anderson, Jim Thompson, Ettore Majorana, Filostrato di Lemno, Marilyn Monroe, erano geni. Marlon Brando era un genio. Gabriele Falloppio e Shingeru Miyamoto che per fortuna è ancora vivo. Mamma mia! Nick Drake.

Solo una cosa non trovo ridicola: la paura del ridicolo. Un uomo che ha paura del ridicolo è un uomo. Che sia uomo o donna non importa. Sono bisticci della lingua. Chi guarda al particolare non ha paura del ridicolo. Non ne comprende il senso. Nel grosso baraccone della vita quotidiana il dettaglio è l’universo. La ruga che non si vuole che sia ruga, il capello che non deve essere fuori posto, la parola che le riassume tutte. L’io inizia e finisce dove dico io. Il mio rossetto, la mia cravatta, il mio modo di essere un pagliaccio con la risposta pronta. Ti trovi assorbito nella normalità. L’eccezione che non conferma la regola perché la nega. Esiste. Tutti sanno che c’è stata, ma si nega. La regola è l’eccezione, l’eccezione è la regola. Il ridicolo non ha più ragione di esistere perché non ci sono distinzioni. Chi ha paura del ridicolo ha l’incubo di passare dalla croce di legno. Quella della marionetta di cui è il burattinaio.

Tutto questo è ridicolo.

(bob)

giovedì 22 luglio 2010

Il demone della foto


Mi sono trovato due volte a piangere durante un concerto.

C’è da dire che la prima non fa testo, perché dovuta al crack del mio ginocchio durante gli ultimi minuti del live degli “Asian Dub Foundation”. La seconda invece ero sovrastato dai droni dei “Fuck Buttons”, e non sono riuscito a muovermi di un centimetro per tutta la durata del concerto, salvo accorgermi, verso la fine, che avevo reclinato la testa e iniziato a piangere ormai da un bel pezzo.
In tutto questo, C., accanto a me, ballava come se si trovasse ad un rave estivo al quarantunesimo chilometro della Cassia.

Ieri è stato diverso. Prima che le sorelle Casady salissero sul palco, un bontempone alla consolle ha pensato bene di mettere i “Take That” completamente al rallentatore. Sembrava di sentire Barry White sotto acido, mentre tenta di farsi cacciare dalla boy band nella quale è appena entrato, ovviamente stanco e fuori forma. Inizia il concerto nel momento in cui mi viene offerto del vino. Primo pezzo tutto ok, beat boxer da paura, smanettone al piano e ai synth, percussioni, e le due sorelle Casady, Bianca e Sierra AkA “Cocorosie”. I bassi provenienti dal beat boxer, sono così profondi che mi viene da grattarmi il naso, neanche fossi sotto il sound system di King Tubby “nella Giamaica degli anni ’70. Va tutto da paura, almeno fino a quando non capisco di essere attratto in maniera ossessiva da una delle due sorelle. Non so cosa mi inchioda lo sguardo, lei e nient’altro. O forse lo so benissimo, ma è veramente troppa roba. Forse è perché ad un certo punto si toglie la gonna bianca a cuori rossi, facendo spuntare dei tre-quarti “ghetto style” marchiati Iron Maiden.

Ad un certo punto mi rendo quasi conto di stare tralasciando il concerto. Vengo preso a braccetto dal famoso demone della perversione di cui parlano Edgar Allan Poe e Jovanotti.
Sì, avete letto bene, non preoccupatevi. Giuro che non mi impelagherò in prolisse argomentazioni che giustifichino l’accostamento, per molti di voi sicuramente blasfemo, scopritelo da soli leggendo “Il demone della perversione”, e ascoltando “Mi fido di te”.
Fatto sta che, proprio quando comprendo di stare trascurando il concerto, al posto di riprendere il filo, persevero nella mia ossessione. Una figura fuori dal tempo che risponde al nome di Bianca Casady, mi sta letteralmente devastando. Mentre sua sorella si destreggia tra arpe, burqa del terzo millennio, e mosse al confine fra Nureyev e Ambra di “Non è la Rai”, lei smanetta con residui d’infanzia, strumenti a fiato, e una voce da fare invidia a tutte le vincitrici dello Zecchino D’Oro.
Sono completamente in balìa di questa dannata donna.
Il concerto sta per finire e, verso le ultime due canzoni, ho un disperato bisogno d’acqua, indotto dall’insolazione che mi ricorda di essere stato al lago appena tre ore prima. Penso che sto per svenire, ma tengo duro e riesco addirittura a rifiutare il vino che ormai mi viene offerto a ruota. Ce la faccio, rimango in piedi ancora stordito dall’immagine di Bianca. A chi mi chiede come sia andato il concerto, riesco a fatica a bofonchiare qualcosa che la riguardi, ma non riuscirei a ricordare cosa.

Ritorno alla vita (e al dancefloor) grazie ad un semplicissimo bicchiere d’acqua. Sto ancora metabolizzando il tutto, mentre M. mi sposta dicendomi “eccole! ci stanno le Cocorosie che ballano!”
Mi giro. Siamo una quarantina sulla pista. Il bontempone alla consolle questa volta non fa scherzi. Ha messo su un dj set electro di tutto rispetto, mentre Bianca (velo di seta in viso e camicia direttamente presa da un film di Bud Spencer e Terence Hill) si dimena ballando come nemmeno C. ai “Fuck Buttons”.
Solo dopo un minuto abbondante, mi accorgo che c’è anche sua sorella, insieme a tutto il resto del gruppo che si diverte quasi più di noi. Nessun buttafuori o guardia del corpo a sorvegliare. E’ finito il concerto e hanno voglia di ballare in mezzo a noi miseri fans. Cerco di sfuggire al momento foto, ma alla fine mi tocca.

Prima foto : baci, abbracci, fomento, consapevolezza di aver scattato senza flash.

Seconda foto : (nonostante i decibel non mi aiutino), spiegazione in inglese del fatto che prima non ci fosse il flash, baci, abbracci, doppio fomento, consapevolezza di essere usciti solo noi nella foto. Delle Cocorosie nessuna traccia.

Mi viene da pensare quanto possa essere difficile spiegare che, anche nella seconda foto, qualcosa è andato storto, senza dare l’impressione di essere i soliti maniaci, e soprattutto continuando ad ignorare il fatto che avremmo potuto continuare a scattare anche diecimila foto, chiamando Oliviero Toscani in persona, senza che in nessuna di queste comparissero le “Cocorosie”.
Avremmo potuto scorgere Satana a posteriori, riguardando la foto, oppure Robert Johnson, e sarebbe stata la stessa cosa. Ma loro no.Vengo invece sollevato dal fatto che sarebbe abbastanza facile regalare a Bianca l’armonica con la quale al lago ho fatto addormentare almeno una decina di persone. Lei mi guarda annoiata, e bofonchia un grazie senza nemmeno capire di cosa si tratti.

Vorrei dirle che l’amo, e non sarebbe assolutamente la verità.


(Michelangelo)

giovedì 8 luglio 2010

Il mio caro vicino di casa "Einsturzende"





Ho sempre pensato che gli Einsturzende Neubaten sarebbero rimasti favorevolmente impressionati dal rumore che il mio vicino di casa riesce a fare con il trapano alle 7 di mattina in punto, ogni maledetta estate, da 10 anni almeno. Probabilmente lo fa da sempre, ma sicuramente da bambino l’avrò rimosso e sostituito con l’estate di Vivaldi, in cui a un certo punto i contrabbassi fanno un baccano infernale che preannuncia il solito temporale estivo. Lo sappiamo benissimo che i bambini sono più intelligenti. Come diceva Gaber, “i vecchi bisogna ammazzarli da bambini”. E per vecchi non si riferiva certamente agli anziani tipo mia nonna, che dopo una vita passata a tirar su famiglia, si ricorda ancora le parole delle “canzoni di una volta”, quelle “belle” che vorrebbe ascoltare per tutto il pomeriggio.

Comunque torniamo al mio vicino di casa, perché è di lui che dobbiamo parlare, prima che inizi a divagare e mi metta a pensare a tutte le volte che da bambino, alla casa al mare, cadevo con la bicicletta, e giù sangue a fiotti dai gomiti e dalle ginocchia, proprio quelle ginocchia che ora si meriterebbero proprio una bella operazione…. Come dicevano a Mastrandrea ne “In barca a vela contromano”, il quadricipite è il muscolo più bastardo, perché gli basta solo una settimana di immobilità per farti bestemmiare sudando sei mesi in riabilitazione.

Ma è del mio vicino di casa che dobbiamo parlare.

Per anni l’ho solo associato a quello stramaledetto rumore industrial. Mai visto una sola volta, neanche di sfuggita, nemmeno mentre si rintana dentro casa sbattendo la porta.

Solo il trapano che d’estate mi sfasa il bioritmo.

Spesso mi ha sfiorato l’idea che potesse essere un “Signore Inesistente”, proprio come quello cantato da John De Leo nelle tre “Raptus”.

La storia dei Quintorigo è semplice : in un comunissimo condominio, c’è un inquilino silenzioso che nessuno ha mai avuto l’onore di vedere. Paga sempre puntualmente, e il suo comportamento discreto ed esemplare non ha mai dato fastidio a nessuno. Durante una riunione, guidati dal professore del terzo piano che viene colto da un raptus improvviso, i condomini decidono di andare a trovare “il signore inesistente”, tra chi urla che non esiste, e chi crede che invece sia un demone ancestrale. Alla fine sfondano la porta, e ognuno si accorge che in quel luogo rivede casa sua.

Ma questa non è una canzone, altrimenti sarebbe stato tutto più facile.

E’ un 12 luglio afosissimo. Non ho dormito quasi per niente a causa dei 40 gradi nella stanza. Le lenzuola sono bagnate, e il sole che entra mi ricorda di aver dimenticato la tapparella alzata. Attacca anche il trapano ovviamente, alle 7 in punto. Mi viene da pensare che nel giro di due ore il mio letto sarà una camera ardente se non abbasso quella tapparella.

Ormai il caldo misto al dormiveglia della notte insonne mi fa viaggiare. Mi rendo conto che continuerò a stare in quella posizione per un bel po’. Non sento nemmeno più il trapano : la cosa bella è che non so dire se Einsturzende si sia fermato con quell’aggeggio infernale, oppure semplicemente non lo sento più. Forse quel suono fa parte di me ormai. Probabilmente mi alzerei dal letto, andando a protestare col vicino, solo nel caso in cui gli saltasse in mente di non usare più il trapano. Devo essere diventato completamente dipendente da quel bordone mortifero, mi viene da pensare. Un drone metallico e percussivo si è installato nel mio cervello, come la prima volta che si assiste ad una performance di un qualsiasi attivista viennese, e la capra che mangi il giorno dopo ti ricorda solo l’alluminio.

Se c’è un posto dove posso incontrare il mio vicino, è senza dubbio il sogno che sto facendo in un bagno di sudore.
Ci metto un poco a capire che un sogno lucido è finalmente tornato a fare visita al mio cervello, nonchè al trapano che vi alloggia dentro ogni mattina d’estate. Non capita spesso di fare sogni lucidi, o farei meglio a dire di riconoscerli. Prima di questo, due sole volte, poiché di solito i sogni si subiscono, interagendo con cose, persone e animali, senza potere realmente decidere dove andare e cosa fare.
Quando realizziamo di essere in un sogno lucido, ci possiamo divertire, eccome se ci possiamo divertire…
Non mi sono mai spinto oltre la capacità di poter direzionarmi, ossia di decidere dove saltare, su cosa, e in alcuni casi allontanarmi da una situazione, oppure restare qualora lo volessi. Ammetto di provare invidia per la gente che studia e sperimenta da anni questi stati di (in)coscienza, dal momento che, come ci ricorda Linklater in “Waking Life”, se sei abbastanza bravo, puoi decidere di fare qualsiasi cosa nel tuo sogno lucido. Qualsiasi…

Ed eccomi qui davanti alla porta del mio incredibile vicino di casa Einsturzende, emozionato come un bambino il giorno della sua comunione. Quando decido di mettere mano alla porta, mi accorgo che è già aperta. Da fuori riesco a scorgere una figura, senza trapani né aggeggi infernali tra le mani.

Sta cantando.

E' una voce femminile.

Sono le stesse “belle canzoni di una volta” che cantava mia nonna.



(Michelangelo)

lunedì 5 luglio 2010

Siediti qui e registriamo questi pezzi


C’è solo una cosa che mi infastidisce più di una bottiglia di Ballantines vuota. Una bottiglia di Chivas nuova che non posso aprire. Non è mia e non posso. Punto.
Semmai potrò scroccare qualche bicchiere più in là, ma non prima. Per il momento resto a secco. Amen.
Sono stanco. Mi si chiudono gli occhi da soli ed ho fatto un errore. Un errore da pivello lo ammetto, ma ormai è fatta. Sono andato a riesumare roba di qualche anno fa. Roba scritta intendo.
Io scrivo da non so quanti anni ormai. Lo faccio per passatempo. Alle volte mi sento Carver, altre volte no. Pazienza. Ma il punto è che non si dovrebbe mai rileggere la roba dei primi tempi. Ti fa sentire peggio.
Da giovane scrivevo poesie bellissime. Piene di verve e immagini. Ci mettevo più tempo e meno cognizione. Era meglio. Al confronto con quelle di oggi mi sembra di non aver concluso nulla. Mi viene in mente quella frase di Benedetto Croce, che non cito: tutti poeti fino ai diciotto, poi solo i deficienti e quelli veri. Ecco, considerando i primi versi mi rendo conto di essere scivolato tra i primi. Romanticamente tragico.
Dice, sta esagerando. Si sminuisce per fare sembrare che è più bravo. Fa il falso modesto. Non è vero.
Credete quel che vi pare, non mi interessa. Piuttosto questa notte non mi va di andare a letto presto. Mi va di sprecarla ancora un po’. Oggi ho fatto il mio dovere. Il minimo sindacale, ma l’ho fatto. Perciò oggi posso rivendicare tutti i diritti che voglio. Il lavoro rende liberi di rivendicare qualcosa. Diamine io lavoro tu non fai niente fatti da parte. E’ questo il senso.
Sarebbe la notte buona per rivendicare l’amore, ma non so. L’amore è qualcosa che ti dà troppi pensieri per una testa sola. E’ un investimento su bolle di sapone. Tu pensi di avere comprato un immobile, ma in realtà non starebbe su nemmeno con diecimila colate di cemento.
Che cosa terribile che ho detto. Ho appena paragonato l’amore ad una transazione. No, scordatevelo. L’amore esiste e non si può comprare. Tutto quello che comprate non esiste, perché non avete fatto nulla per procurarvelo. Sì, ok, lavorare, si torna al discorso di prima, ma non è questo il punto.
Si resta scottati dall’amore. E’ una cosa strana ma succede. Alcuni trovano strano persino essere gentili, o provare compassione per le persone. Perciò credo che ai loro occhi possa sembrare una follia tutto questo attaccamento. Si giustificano pensando che siamo tutti una massa di egoisti e che l’amore non è altro che il gusto del soddisfacimento supremo. Superna figa.
Io non ho mai creduto a queste cose. Sono sciocchezze. La gente che la pensa così non ha vissuto abbastanza per arrivare a tali conclusioni. Credono che siamo tutti pazzi e per controllarci ci assecondano. Siamo stupidi forse, ma non pazzi. Anche essere pazzi è una giustificazione.
Come la mettete mettete il cinico avrà sempre ragione. Se fai qualcosa di completamente disinteressato, come -che so- vendere tutte le cose che possiedi e darle via in beneficienza. Loro, i cinici, diranno che lo hai fatto per metterti in mostra. E se non è per questo, soltanto per dimostrare che sbagliano. In ogni modo per fare piacere a te stesso. In conclusione, il tuo ego è grosso come un pallone pieno d’acqua che ristagna. Cinicamente parlando, si intende.
Per questo oggi non me ne fotte un cazzo e scrivo. Ho voglia di scrivere e lo faccio. Ah, dimenticavo di salutare un nuovo acquisto per il blog, quel Michelangelo che sta scribacchiando già qualcosa. Cosa significa questo? Non lo so, intanto come diciamo noi lo andiamo facendo. E a culo tutto il resto.

mercoledì 30 giugno 2010

Il tricheco è peste


La carne mandava odore di urina. Urina mista a feci. Decomposta. Un odore intenso e pungente che sembrava non dare fastidio ad alcuno dei passanti di via G. Ungaretti all’incrocio con la G. Zanardelli. Qualcuno appena prima di entrare nel parco della villa comunale di fronte, levava dalla tasca un fazzoletto per soffiarsi il naso. Come a dire “fa fresco” oppure “sa la stagione … io sono allergico al polline” “Uh, uh!”. Insomma pochi, molto pochi, si accorgevano del feto orrendo che impregnava l’aria di quel fine pomeriggio di primavera. Come qualcosa di appiccicoso quando fa caldo e c’è umido, e nessuno ha voglia di andare in giro. Nessuno eccetto Oreste naturalmente, che malgrado suo li rappresentava un po’ tutti.

Oreste Pausania, questo il suo nome completo, non si era mai accorto di quanto alti potessero essere i fiori o colorati i tronchi degli alberi, oppure liquorosa la scia che le barchette di carta si lasciano dietro appena prima di affondare. I bambini che le spingono sul pelo dell’acqua fino ad un certo punto poi semplicemente le lasciano andare. Finché vanno, va. Insomma, non lo aveva mai notato perché “spesso” pensava “la gente fa una fatica tremenda a sollevare il naso da terra”. Non era propriamente il livello del mare quello, siamo intesi.
Di questa brillante intuizione si sentiva abbastanza compiaciuto, al punto da soffermarcisi a pensare su mentre camminava lungo l’interminabile G. Ungaretti che non si schiodava nemmeno un momento dall’incrocio con la G. Zanardelli, avanti e dietro, da un angolo all’altro di una Villa di cui non conosceva nemmeno il nome. Vent’anni dopo un equipe di scienziati illustri, stanchi e frusti di cercare una cura per il cancro, avrebbe scoperto che quell’incrocio volgeva un po’ più ad est poco meno che vent’anni prima. Il segreto del punto G sarebbe stato detto. Rideva.

Non lo stupiva affatto vedere le macchine che si fermavano al rosso del semaforo, proprio mentre una pesante colata di saliva, mista a muco, misto a caramelle per la gola, misto a carie, splasciava al centro dell’incrocio. Non lo infastidiva perché era una reazione naturale a certe cose, ma nessuno ci pensa mai sul serio a cose come questa.
Un tizio girava con l’ombrello ancora aperto per la pioggia di poco prima. Guardandolo passare Oreste si ricordò che era marzo e marzo gli fece venire in mente suo nonno, che era un uomo che amava ripetere in questi casi che marzo è il più corretto dei mesi, perché non piove mai sul bagnato. Sorrise, ma il tizio sembrava sempre più uguale a suo nonno, che in realtà si chiamava Mevio, mentre lo guardava disteso in chiesa dentro la bara il giorno del suo funerale. Quello si fermò e allungando la mano un momento col palmo aperto verso su disse “Oh!” ed arrossì. Chiuse l’ombrello e dopo averlo asciugato con un fazzoletto lo rispose nella custodia pulendosi con estrema cura le mani sporche di sangue. “Grazie” disse rivolto ad Oreste con tono dignitoso e signorile. Lui si inchinò facendo una grossa riverenza e una pernacchia. La carta è molto affilata da queste parti, profonda più di un ulivo.

Oreste capiva bene l’ostinazione di tutti i nasi, anche quelli più sensibili, di continuare a sporgersi verso il basso, ma era anche estremamente convinto che dietro ogni naso ci fosse una testa “e quella può stare sotto come sopra” intuiva. In un primo momento non ci faceva molto caso, ma con l’esperienza aveva presto imparato a interpretare anche le più piccole rughe che si formano sulla fronte. Perciò dei giovani non si fidava, e se incontrava un cane, beh, quella sì che era proprio un grattacapo.
Intanto Oreste girava avanti e indietro sulla G. Ungaretti e la gente che passava si faceva sempre più fitta incrociando la G. Zanardelli, come le stelle man mano che il sole tramonta. Di qualche nuvola non è che Oreste avrebbe sentito tanto la mancanza, soprattutto in quelle circostanze che non sapeva proprio come fare. Tra un vecchio disonesto, un bianco sepolcro, un finocchio molto serio e innamorato, un’infedele in carriera, un uomo che stava per morire, i cani, i soliti assassini, i falsi, i bruti e gli agnelli col muso inzuccherato d’ambra, starnutiva lui. Esistenze che sapeva legate assieme da suoni e da odori ancora una volta più tristi dell’erba quando cresce. Uomini così impegnati a pesarsi il culo da non sentire l’organico sudiciume dei fiori a due metri di distanza. Nati noti più che banali, pensava.
Quante vite sarebbero scomparse in quel momento se solo avessero saputo. Quanti uomini così sicuri di sé, pensava, avrebbero tirato fuori i loro soldi dalle banche, dai materassi, dai salvadanai, quanti raccolti bruciati se si fosse conosciuta la verità in quel preciso istante. Quanti peccati tenuti a portata di mano si sarebbero potuti consumare. Poteva ancora non finire male dopotutto, che la goduria continuasse ad libitum. Per sempre.

Combattuto tra questi pensieri Oreste continuava a camminare avanti e dietro, quando improvvisamente un tricheco con la mantellina e il cappello lo strinse forte per un orecchio urlandoci dentro YAHONK! e poi un altro YAHONK! così forte da farlo piegare in due per le lacrime. Iniziò a toccarlo sporcandolo d’olio. Lo leccò sul mento con un odore forte di pesce vomitato. Un baffo gli percorse tutto l’esofago su e giù più volte. Oreste si sentì improvvisamente perso, come un’astronave vuota sulla rampa di lancio. Voleva gridare. Gridò, forte: KWHUOOOONCK!(?) dentro se stesso e il tempo sembrò in quel momento dargli ragione, girando appena un po’ più lento del normale. Il tricheco si tolse il cappello e lui gli diede un pugno forte, proprio tra il lobo prefrontale destro e quello sinistro. Il poliziotto cadde accasciato in un rigo di sangue. Fece appena in tempo a segnare una ipsilon di sbieco. Così “t”.

“Guardate, guardate il tricheco” urlava Oreste “e’ questo il tricheco! Io sono l’uomo e lui è il tricheco. Guardate chi ha vinto. No! Sbagliato! Lui non è più niente, come ogni tricheco è peste e altra peste verrà!” Aggiunse saltando sul corpo del sergente (Rossi Maurizio, come da verbale) con entrambi i piedi. “Il tricheco è peste e come il pesto va pestato” ripeteva saltando “il tricheco è appestato, pestate gente!” Le persone intorno passavano dritte facendo finta di niente. “Pestate gente, finché potete.”
Dopo un momento “Voi fate finta” disse puntando le dita “l’ho appena saputo. Lo so che fate finta e non siete per niente sdegnati. Voltatevi, giratevi, guardatevi, chi siete, dove andate?” Continuava Oreste Pausania, avvertendo in quel momento in maniera del tutto evidente la completa arbitrarietà del suo nome. “VOLTATEVI!!” urlò ancora Oreste dritto sul pancione di un tricheco steso morto in via G. Ungaretti all’incrocio in movimento con la G. Zanardelli. E in quell’istante tutti si fermarono a guardare in alto nel cielo, e tutti videro quel tizio seduto, là. Dietro. Ancora morto. In attesa come tanti di un punto.
Permesso.

Orazio e Winnie The Pooh

Esco. Mi muovo. Non sto fermo. Dovrei studiare un poco, ma non sto fermo. Perciò esco. Mi accendo una sigaretta e penso. Forse dovrei ricominciare. Mi siedo ad un tavolo, in un bar. Fuori. C’è bel tempo ormai. La primavera fa le ore grasse. Pesanti. Piene di ricordi come larve. Una tipa si avvicina e mi fa all’orecchio “che bello che sei”. Ed io penso a mia zia stesa sul divano, tra fogli di giornale e vecchie cartoline postali. Francesi. Alla casa di Alda Merini vista una volta in un documentario sul due. Identica. A quella pazza che c’ho davanti e ripete “sei davvero bellissimo”. Mia nonna morta da un mese un martedì pomeriggio senza fiatare, sorridendo. Bevendo da un bicchiere. “Quanto sei bello”.

Mi alzo e non dico niente. Non faccio niente per non darle da intendere. Ho appena saputo che mio zio ha cercato di ammazzarsi con un martello. Non dico niente, non faccio niente. Non rido come al solito come uno stronzo. Non le chiedo con chi ho il piacere. Di scusarsi. Di sorridere ad un discorso bieco. Non la torturo, non mi diverto. Non gioco, non dico niente per tenerla su. Non faccio per andarmene, me ne sono andato. Non mi giro nemmeno un momento. Penso ad un tizio che conoscevo morto di cancro a 24 anni. Ad Arvo Part. Tintinnabuli. Al tizio che scrisse di me che viaggio, come un iceberg in un mare di scogli. Che disse che io sono Tintinnabuli. Che per scrivere ci vuole orecchio. Che disse che io avevo detto tutto questo. Tintinnabuli avevo detto.

Penso alle parole. Alle forme degli astri. Alla lag celeste che mi sembrava un bel modo per chiamare le stelle. A Dio che sembra che non gliene fotte un cazzo. A chi dice che in realtà gliene fotte sul serio ed è proprio questo il bello. Penso alla tizia che ho lasciato dietro che non era male. Alla solitudine. Alle rughe del buffone e alle occhiaie dell’intellettuale. Orazio e Winnie The Pooh. Alla cessa che la sera prima mi ha chiesto un brindisi. Al brindisi che non so fare anche se sono un poeta. Sì, non so mettere due rime in fila e sono un poeta. Contenti? O si beve o si muore. Anche questo è il bello.

Che mi hanno chiesto una frase per la pietra tombale. Io steso sopra una tomba in un cimitero vuoto per non sentire nessuno. E loro che mi chiedono un verso. Un epitaffio. Una frase hanno detto. Per esprimere quello che provo. Ok, gli ho detto. Poi non l’ho fatto. Una frase, un verso, un sì. Niente che non sia già stato detto. Meglio il silenzio. Una frase o un verso sono una cosa tremenda. Una discesa all’inferno. Uno sputtanamento senza gusto. Meglio il vino al verso. La poesia liquida al riflesso di uno schermo. Un chiodo ad un punto fisso. Un clistere ad un enjambement. Andare di corpo piuttosto che di spirito. E’ sempre meglio.

La passo. Mi dimentico. Mi diverto. Non ci penso. Non è giusto lo so, ma non serve a niente. Ci si deve pure aggrappare a qualcosa. Mi aggrappo. Quasi ne esco. Poi il crollo. Mio zio, quello del martello, morto. Mia zia è un armadio di pianto. Io mi sento più leggero. Non insisto. Non scrivo e non voglio. Nessun turbamento. Sono triste sì, ma non a quel punto. Non piango, rido.
Nel pomeriggio l’altro zio mi presenta il suo epitaffio. La nonna è ancora senza. Mi chiede di correggerlo. E’ bello. Cita Franco Costabile. La rosa nel bicchiere. E’ bello. Lo correggo. Ci metto del mio. Rimesto i ricordi. Una vita in quattro versi. Lo stesso modo di sentirla. Il volto di mia nonna che riemerge dallo specchio. Il bicchiere che custodiva per me soltanto da che ne avevo dieci. Che solo io lo tocco quello. Mia nonna che non mi ha mai fatto sentire di troppo. Come nessun’ altra persona in vita mia.

Mia nonna mescolata in una tazza. Mi sto mineralizzando penso. Invecchio. Non ho più la forza di un tempo. Sono solo come un cervo. Per la strada come un cervo. Tra le macchine che passano e sbuffano e suonano. Con le persone che strillano dal finestrino. Io passo. Io sono un cervo. Mi accendo un’altra sigaretta e penso diamine sì. Una nuvola di fumo mi cresce dentro. Sono un cervo. Se vi va bene resto, altrimenti fa lo stesso. Anche se resta qualcosa in sospeso. Quel discorso sul cervo. Appunto.

(bob)



Il SUV del capitano "Achab"


Ponte Lungo - Via Salaria, ora di punta.

Devo arrivare in segreteria almeno mezzora prima dell’apertura degli sportelli, altrimenti mi aspetta una coda simile a quella che hanno fatto i tifosi interisti per i biglietti di Madrid.
Io però non posso far passare il tempo cantando ubriaco a squarciagola cori da stadio. Bella differenza.

Monto in sella al mio bolide, una Bianchi da passeggio che avrà almeno una ventina d’anni.

Un passaggio obbligatorio per il 90% delle destinazioni, è la rotonda di “Re di Roma”, famosa piazza di ritrovo per anziani la mattina, coatti il pomeriggio, e tossici la notte. La strada ricorda il circuito della ventiquattrore di Le Mans, un cerchio perfetto. Sarà per quello che la maggior parte dei motorizzati la prende a 60 kilometri orari, un paradiso per i pedoni e quelle strane creature deformi che si muovono in bici.
Se passi indenne la rotonda ti aspettano altre due forche caudine.
La prima si chiama Porta Maggiore, uno snodo stradale che collega verso qualsiasi direzione. In questo luogo tutto è inquinato, persino il cibo : il venditore ambulante si chiama “O Zozzo”, da anni il suo posto è quello nel quale penso converga la più grande massa di CO2 di tutta Roma. Adoro osservare la gente che mangia seduta sul bordo del marciapiede, con in faccia i tubi di scappamento delle macchine lasciate accese per inerzia. Se ha avuto una giornata difficile, la gente la sera va dallo “Zozzo” : CO2 più “pane e merda”, uguale Tavor.
Io per sballarmi come si deve, non devo far altro che aspettare di passare in bici dalla stazione Termini. Lì spesso vengo colto da crisi e deliri mistici da monossido di carbonio. Se mi impegno e riesco a fare un bel respiro profondo, dopo aver pedalato di gran lena per togliermi dalle palle il clacson della signora Maria, posso cadere in stati di trance paragonabili solo a quelli dei fumatori indiani di tabacco. Più che morte apparente, sono visioni strane, come quella volta al semaforo che vidi il capitano “Achab” smanettare con l’autoradio dentro un SUV lungo sette metri e alto quattro. Tornai nel mondo reale non appena “Achab” abbassò il finestrino : il gelo della sua aria condizionata mi sapeva di inferno, ufficio e colletto stretto quanto basta per non morire strozzati.

Parcheggio la bici e salgo in segreteria.

Butto un occhio alla fila, esattamente come un giocatore di poker spizza le carte della mano in cui si è giocato il braccialetto d’oro della prima comunione.
Ne avrò per un’ora abbondante, mi è andata di lusso.

Nel mentre mi arriva un messaggio dal mio coinquilino : “scusa, sai è un periodo strano, scusa davvero per la reazione”. Prima che sfidassi la metropoli in tempesta e vedessi il capitano “Achab”, aveva sbottato di brutto lanciando le cose per aria, radunando tutta la sua roba in un angolo della stanza. Mi disse con tono serioso e perentorio, “avevi detto che non avresti mai comprato un aspirapolvere in vita tua, che avresti fatto sempre tutto a mano, ed ora eccoti qui ad usarla con me per pulire la casa dopo che si è allagata! Sei uno stronzo, me ne vado!” C’è da dire che il capitano “Achab” l’avrei conosciuto di lì a poco, e forse era per quello che la situazione mi sembrava alquanto grottesca.
Ai suoi messaggi non faccio più caso da un po’, ormai lo conosco bene, so che a un certo punto ritorna a casa e via come se non fosse successo niente, Nick Drake e Lilly Gruber che fanno a botte nella stanza, il volume del tg che annienta la mia ultima canzone. Un po’ come il capitano “Achab” che dentro al SUV si annienta con Radio Deejay, e il volume appena sotto la soglia del dolore.

Ritorno a casa. Più o meno le mie orecchie ci mettono mezzora a disintossicarsi dall’inquinamento acustico, mentre per quello atmosferico c’è poco da fare. Se passi da Porta Maggiore in bici all’ora di punta, ritorni a casa con la sensazione di aver fumato trenta Marlboro rosse di fila.
Accendo la tv. Spagna contro Portogallo. Sorrido compiaciuto, ma non appena le vuvuzelas iniziano a infastidirmi, tento quasi una mossa isterica brandendo il telecomando con fare minaccioso. Poi capisco tutto e mi lascio coccolare da quel dolce suono e mi addormento.

Domani mi sa che andrò a sudare in metro.



(Michelangelo)

Dopo l'amore

Spense la sigaretta ed uscì, deciso come era a prendersi la sua rivincita. L’ avrebbe ammazzata quella stronza, a furia di correre i polmoni le sarebbero esplosi in petto. Sarebbe morta soffocata dallo stesso sangue che le pompava fin dentro i bronchi. Poteva correre allora, corresse pure, pensava. Se non fosse bastato ci avrebbe pensato lui.

Trovò nel retro della casa l’accetta. La lama scintillava sotto la luce riflessa della neve del primo mattino, così affilata che ogni fiocco cadendo si apriva come le pagine di un libro lungo il filo. Era ancora sporca di sangue, ma utile. “Quel dannato cane” pensava. Prese la strada che portava giù a valle seguendo le orme come certi segugi l’odore della preda. Fortuna ed istinto. Sempre cani.

Pensò che l’aveva amata, ma non era per amore che sopportava quella fatica. Pur di ammazzarla intendeva, pur di ammazzare una donna un uomo farebbe qualsiasi cosa. E lui lo credeva possibile, se non proprio del tutto, almeno abbastanza. Per lui era così in quel momento e forse era l’amore che lo rendeva così semplice. Era possibile in fondo.
I passi si susseguivano l’un l’altro da soli senza soluzione di continuità, come battiti nel cuore. La casa, piccola triste baita di quella luna di miele, distava già qualche centinaio di metri. La neve si era infittita così tanto da offuscargli la vista più di quanto la rabbia non era già riuscita a fare. Non gli importava dell’assideramento. Non era quello il problema, per il momento.

Uomini e bestie si accomunano per una cosa, ancora di più se quella cosa gli circola nel palato strizzando le papille nella bocca come il tacco a spillo di una scarpa. Sangue. Sangue odoroso anche sotto la neve. Sangue che chiama sangue, fresco abbastanza per rendersi conto che qualcuno o qualcosa era passato di lì. Pregò soltanto che i lupi non l’avessero presa prima di lui.
Si mise a correre, ma non di una corsa ansiosa o di paura. Più simile a certe rincorse di treno, quando la vita scorre via e tutto sembra sul punto di cambiare. Corse, corse finché ne ebbe il tempo. Finché la neve non si infittì a tal punto che il dirupo lo colse improvvisamente con dolcezza, senza fare rumore. Inghiottito dal nulla. Quasi.

Non morì. Si lasciò cadere per un tratto sollevando un po’ di neve fino a uno spuntone di roccia giù in fondo. Appena in tempo. Il ginocchio schioccò un clac! e poi anche altre ossa fecero clac! finché non fece clac! anche qualcosa dentro al suo cervello. Ma già al secondo clac! la mente non capiva più cosa stesse succedendo. Tutto gli sembrava soffice e vellutato. Un clac! appunto.
Più in basso stava lei, accovacciata con le gambe attorno alla nuca, senza trucco, con le labbra viola e la cagnetta ferita in grembo. Senza lupi nei paraggi. Da qualche parte. Morta.

sabato 19 giugno 2010

la donna, il sogno e il grande incubo (¿)

Ho solo ventiquattro anni, ma nella mia vita me ne sono già sentite dire di tutti i colori.
Mi hanno chiamato giallo, mi sono sentito rosso in viso e bianco dentro. C’è chi ha pensato che io fossi un fottuto rosa e se la ride perché il viola è da un po’ che non va più di moda. Io non ci avevo mai fatto caso.
Oddio se mi si dà del marrone non è che faccio i salti di gioia, ma dipende dai modi. Se sei bravo riesci a fartelo venire fuori lo stronzo che sei. Soprattutto con la persona giusta.

Una ragazza che amavo una volta volle sentirsi dire da me una rima in cuore/amore. In risposta al mio rifiuto, mi disse “beh, mi aspettavo di più da un poeta” con quel labbro arcuato che è l’ampiezza del disprezzo. Inutile dire che mi sentì come un occhio nero. C’era un mare di cose che non potevano essere spiegate in quel momento. Un cielo livido in pieno Agosto.

Un’altra botta me la diede proprio lei. Un giorno mi disse che io non sapevo che cos’era il romanticismo, perché non le portavo mazzi di fiori ogni giorno, né le avevo mai offerto una cena in un bel ristorante come faceva suo padre con la mamma grassa che aveva. Le dissi allora che verde era il colore dei soldi e della muffa più o meno, persino della rabbia che le saliva sul volto mentre pronunciavo quelle parole, ma certo non aveva niente a che vedere col romanticismo se era di quello che volavamo parlare. Solitamente, si sa, è rosso come il sangue della povera gente.

Pensare che io il sangue l’avevo pure donato per farla contenta. Non è che sia contrario alla donazione, anzi, ma avevo, ho e avrò, una paura fottuta dell’ago. Non sono un codardo, se c’è un buon motivo per fare qualcosa la faccio. E’ una paura da pigro la mia. Perché stuzzicare il cane se dorme? La ballata della vanità.
Insomma, di colori ne ho visti e sentiti tanti. Ho subito il disprezzo di persone a me care. Mi sono sentito chiamare pazzo, stronzo, alcolizzato, cretino. E non con quel tono che si usa tanto per dire, del tipo “sei proprio un pazzo” e segue una risata. C’è chi mi ha minacciato di TSO strattonandomi per il colletto.

Poi quelle stesse persone non mi hanno degnato di un braccio nei momenti più duri. Appollaiato in un angolo non mi sono potuto permettere nemmeno il sollievo di un pianto. Nessuno a cui dire, no non è vero, anche senza poterci fare niente. Solo l’ennesimo occhio attento e la bocca che schiocca “perché non ci scrivi una poesia?” Perversi.

Ah, maledetta poesia. Non fate mai l’errore di firmare una poesia o di farla leggere direttamente a qualcuno. Salinger diceva che la seconda più grande virtù di uno scrittore è l’anonimato, e aveva ragione. Da vendere aggiungerei. Impara l’arte e mettiti da parte, gli altri questo non lo capiranno mai.

Tutto ciò per dire qualcosa. Non so. Volevo dire qualcosa riguardo alla comunicazione, ma il punto è che lo sanno tutti quanto la comunicazione sia dannatamente difficile. Qualcuno mi disse che tra tutte le arti che potevo scegliere avevo optato per quella più discreta, che era sintomatico quasi. Sintomatico per un pazzo, aggiungevo io ridendo.

Ecco è quel ridendo di cui voglio parlare. Non sono così pietoso da venire qui a piangere sul fatto che la vita è dura e non tutti i buoni lo sono abbastanza da farle fare brutta figura. Però ogni tanto ripenso ad un fumetto. Un mensile che amo e a cui devo molto, a lui e al suo autore: Tiziano Sclavi. Molte cose le ho scoperte così da piccolo maturando una mia teoria. L’unico modo che aveva Dylan Dog per sopravvivere ai suoi incubi era l’ironia. Non si prendeva molto sul serio il vecchio Dylan. Se qualcosa proprio andava storto, se la vita smarriva i confini che qualcuno ha tracciato tra realtà e orrore, allora arrivava Groucho con la pistola. Un altro folle, da un altro mondo, pronto a passargliela ovunque lui si trovasse. E’ senza ironia che si perde davvero il senno. Lo avevo capito.

Lo capisco tutt’ora che mi sento così patetico a parlarne. Che un amico incontrandomi mi ha detto “mi sei sembrato blu ad essere sincero” “Come Drake?” “Come Drake, appunto”.

Un pugno sul muso che non so prendere sul serio.