lunedì 13 dicembre 2010

Il poeta è un fingitore?

Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,

nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo

gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

(F. Pessoa)

Questa lirica di Fernando Pessoa, oltre ad essere una delle sue poesie più famose, mi è personalmente molto cara. Chi sia Pessoa credo che lo sappiamo un po’ tutti, altrimenti vi invito a cercarlo su Wikipedia, enciclopedia sicuramente non al livello di una Treccani, ma che proprio per questo è molto più comoda per farsi rapidamente un’idea di ciò che si cerca. Dicevo, “Il poeta è un fingitore” , questo è un verso che ritengo di per sé molto scomodo: fa storcere il naso oppure sprofonda in un lungo silenzio chi lo legge per la prima volta. Le due diverse reazioni hanno la stessa genesi secondo me: sentirsi dire che il poeta è un fingitore ti inocula un dubbio nel cervello, con la stessa forza con cui si riceve un pugno. Perciò le reazioni non possono che essere due, il rifiuto o la constatazione di avere appena fatto tabula rasa di ogni tuo convincimento.
Nel secondo caso, non si può fare a meno di chiedersi, ma che diavolo vuole dire? Baudelaire, Shakespeare, Montale, Whitman, sono dei fingitori? In prima battuta è legittimo pensare che essendo loro degli artisti prima ancora che poeti, etimologicamente il ragionamento funzioni: la parola arte ha a che vedere con l’artificio, con ciò che è artefatto.

Però, la lirica non si ferma a quel verso, anzi subito dopo mescola così tanto le carte da ricordare molto da vicino quei meccanismi logici chiusi che sono soliti utilizzare i maghi quando vogliono ipnotizzare qualcuno: il cervello va in loop. Il resto del componimento si sviluppa mettendo sempre più in crisi il lettore (“il dolore che davvero sente”? “illudere la ragione” ?), ma senza entrare nella disanima di tutte le strofe arrivo direttamente al punto.
La grandezza di questa poesia, per come la leggo io, è la sua capacità di ergersi a memento mori della scrittura: è proverbiale quasi. Quando ti accingi a scrivere qualcosa non puoi fare a meno che sentirti risuonare nella testa quel “fingitore”, come se qualcuno ti puntasse continuamente il dito addosso accusandoti di esserlo. L’ho sempre interpretata come un j’accuse rivolto alla coscienza. Il poeta ha il dovere di dialogare con la propria coscienza e scrivere secondo sincerità. Un atto d’accusa alla retorica, al sentire secondo convenzione.

Tutti quanti siamo in grado di comprendere che si è tristi se muore una persona cara ed erigere così versi monumentali di pianto, ma io credo che un vero poeta abbia la capacità di dire: “io sono contento”, oppure, “appena l’ho saputo mi sono fatto una sonora risata”. Un po’ come se rispondesse alla domanda “ma è triste o deve esserlo?”
Ovviamente il mio esempio vuole essere estremo proprio per comprendere questo stacco. Mi viene in mente quella considerazione di Ryle (anche qui Wikipedia :P) sul mito, che lui considera come una rappresentazione dei fatti secondo un idioma non appropriato: ragione per cui se si vuole demitizzare qualcosa non si devono negare i fatti alla base del mito, ma descriverli nel modo giusto. Un po’ come diceva Funari, se uno è stronzo lo devi chiamare stronzo. Allo stesso modo, credo che “Il poeta è un fingitore” di Pessoa sia una descrizione del mito del sentimento o, ancora meglio, il mito del poeta.
Da qui il passo successivo, c’è retorica anche nel credere nella figura del Poeta con la ‘p’ maiuscola. Chi scrive una poesia è in primo luogo soltanto questo, un uomo che scrive una poesia. La sua capacità di riversare quanto di umano c’è in lui in quei versi ne fa un poeta. L’umanità non è fatta solo di buoni sentimenti: è umano odiare, provare rabbia o risentimento, e persino sbagliare.

Non so se mi sono spiegato, ma ciò che cerco di dire è che la grandezza di un poeta va ricercata nella genuinità del sentimento espresso, il suo mettersi a nudo con tutte le contraddizioni che gli passano per la testa, chiamare le cose per come sono (o per come esclusivamente lui ritiene che siano). Questo, però, non significa chiarezza, non ha a che vedere col concetto dell’onestà intellettuale, a meno di non considerarla un monito a sé stessi. L’onestà intellettuale non è arte, la quale resta sempre e comunque un artificio, è piuttosto un metodo critico e come tale va usato.

Quando leggo una poesia su un sito qualsiasi e la trovo retorica, priva di quel senso di attraversamento dello specchio che cerco in una lirica, avrei voglia di chiedere all’autore “che cosa stai nascondendo a te stesso? Possibile che non hai niente di tuo da dire?” Lungi da me ovviamente  voler fare psicologia spicciola, ma il poeta è un fingitore mi fa pensare sostanzialmente a quella che, in maniera rappresentativa, possiamo immaginare essere la maschera del dolore.  

A questo punto mi sorge un dubbio: se siamo d’accordo sull’idea che il poeta dovrebbe rifiutarsi di indossare maschere preconfezionate,  considerando che fare arte (e perciò anche scrivere una poesia) è pur sempre una sostanziale finzione, è giusto credere per ciò stesso che sia assolutamente necessario andare in giro a volto scoperto?  

(bob) 

sabato 4 dicembre 2010

Non penso tu sapessi di essere in questa canzone...


"E tu da cosa ti vesti domani sera?"

Sono ormai convinto che questa domanda d'ora in poi mi verrà posta ogni quarto d'ora dalla ragazza qui al mio fianco. Più non le rispondo e più continua ad ingollare tequila neanche fossimo su uno dei tavoli di "Dal tramonto all'alba". Solo che, al posto del vampiro di turno assetato di sangue, devo combattere la sua irrefrenabile voglia di annichilirmi svelandomi dubbi circa l'annosa scelta tra le ultime "serie tv" di grido.
Tempo due minuti e mi chiede se anch'io sono un appassionato di "Lost", oppure "Boris".

Come faccio a non essermi appassionato a "Boris"?

Come fai tu a non essere mai stata osservata dal mostro pescato nella "Dolcevita"?

Mentre vorrei dirle che "Twin Peaks" (come del resto Bruce Springsteen) vorrei lasciarmelo per i 40 anni, sopraggiunge rapida la domanda : "ancora non mi hai detto da cosa ti vesti domani sera..."

Domani sera mi vesto da penna e mi faccio incartare così qualcuno mi regala alla tua migliore amica.

Sì, proprio quell'amica che ora si sta per avvicinare. Magari ora attacca conversazione, e dopo quattro secondi di parole inutili viene a chiedermi se sono su Facebook, così mi aggiunge.
Con uno scatto fulmineo la afferro per i capelli come si fa con i "precog" di "Minority Report", lei mi confessa che senza Tequila bum - bum la sua vita non ha senso, io cado a terra colto da una crisi mistico - sensoriale neanche avessi bevuto dalla lisergica SevenUp offerta da Leary agli "Ash Ra Tempel".

Fuori c'è il padrone del pub in cui finalmente mi accorgo di essere. Sgasa a tutta birra con il suo Suv sollevato a sette metri da terra, reduce da un tour de force che lo ha portato in soli cinquanta minuti a scorgere un migliaio di targhe, sempre le stesse, sempre diverse.

Non che per me ora non valga la stessa cosa. Il Chiappucci che si involava al traguardo a premi nella discesa della Stazione Tuscolana, prima del Gran Premio della Montagna di "Colle Pontelungo", è stato sostituito a fine primo tempo. Non per niente "pensavo è bello che dove finiscano le mie scarpe debbano in qualche modo incominciare una frizione, un freno o un acceleratore". Cinque metri e poi staccare.
Cinque metri e poi staccare. Quattro metri e poi staccare di nuovo. Clacson. Sono stato forse io a premerlo? Sarebbe una figata se fossi stato io ma l'avessi affibbiato alla donna isterica che da dietro vorrebbe tanto tamponarmi, e invece non lo fa perchè l'oroscopo del giorno le ha pettinato la coscienza.

Uscendo fuori dal pub, le mura di cinta sono piene di scritte. Riesco a scorgerne solo una, nel mentre una delle due ragazze (non saprei dire quale anche perchè distinguerle sarebbe un'impresa) continua ad assillarmi con tipiche frasi da ubriaca sconnessa. E' una frase alquanto scurrile, casualmente proprio ciò che vorrei dire alla suddetta zanzara odorosa di tequila.

La cosa più sorprendente è che, non appena si accorge di essere ormai finita in questo racconto (o canzone?), si gira verso il padrone del pub che da dentro la guarda con un sorriso inquietante.

Ha appena messo sul giradischi "The rise and the fall of Ziggy Stardust".

Nel momento in cui il Duca Bianco le sta cantando "I think I saw you in an ice-cream parlour, drinking milk shakes cold and long.
Smiling and waving and looking so fine, DON'T THINK YOU KNEW YOU WERE IN THIS SONG...", il sogno è al termine, e noi con lui.



(Michelangelo)