giovedì 1 aprile 2010

Era da tanto che non mi alzavo così presto

Ci sono cose di cui è difficile parlare. Roba che ci si sente masochisti solo a tentare di farla risalire quella roba là. Però ci sta, come un tappo messo male. Come una valigia chiusa con le maniche della camicia fuori. Una pentola a pressione. Cose che credevi sistemate per intenderci. Stop, voltiamo pagina. Poi succede che qualcuno, inavvertitamente, te ne riparli. Catturi un commento buttato via per caso. Come una tipa a cui non avevi mai dato molta considerazione. Un po’ freak, un po’ stramba. Per quel solito snobbismo che ci accompagna tutti. Chi più chi meno. E dice “Si fa presto a dire la persona giusta, ma la persona giusta non è mica così facile da trovare. No, non è facile per niente.” E tutto quel caos risale. Che noi che scriviamo il caos lo conosciamo bene. Che quasi ci sentiamo padroni del caos. E’ roba nostra, non ti permettere. Come gatte coi cuccioli. Si rischia di farsi male.

E’ tutto un insieme di cose che partono nel cervello. Nodi che avevi stretto bene e che d’improvviso si sciolgono. Senti quasi il sangue rifluire. I sentimenti non sono nel cuore. Sono nel sangue che passa nel cervello. Sarebbe troppo facile altrimenti. Il cuore è delicato, non ci si mette nulla a farlo tacere. Ma se il sangue smette di arrivare al cervello, quello sì che è un problema. Provateci voi a vivere senza cervello. Si può vivere benissimo anche pochi secondi senza cuore. Un secondo è un enormità di tempo. Non confondiamoci.

Il cervello no. Quello parte e non molla. Ricordi un verso. E quel verso uno sguardo. E quello sguardo un altro verso e così via. Ti ritrovi a pensare a cose cui davi poca importanza. Messe a tacere appunto. A quella piacevole sensazione di piegare il capo per dietro e sentire il palmo di una mano. Al morso che ci hai lasciato su. Noi poeti ci scherziamo con i morsi. Noi che ci sentiamo poeti abbiamo una nostra dignità. Ci sentiamo sputtanati per niente. Penso a Cesare Pavese. “Non fate troppi pettegolezzi”. Alla formica che ho appena schiacciato con l’unghia del dito destro. Penso al mio Sbarbaro che mi ha sempre confortato ogni volta che mi sono sentito un sasso. A lei che rideva quando il commesso mi chiese “Chi è, un filosofo?” A Narciso e Boccadoro letto dalle sue labbra. Io che mi sentivo un’alga e lei che non capiva. C’è differenza credo. Tra un sasso e un’alga. Come un rospo e un principe. Poco con uno sforzo tremendo. A dei versi di Saba che adesso non ricordo, ma che ti facevano sentire come un pezzo di legno gettato in mare. A cose un po’ più umili, come una vecchia canzone di Paolo Limiti o di Gino Paoli. Ti ridimensioni. Le fai tue anche se non le citi. Comprendi il senso.

Ti ricordi che amare è un innamoramento. Che non si ama, ci si innamora ogni giorno. Temi l’abitudine. Non scopri di amarla ancora. Scopri di potertene innamorare ogni volta. Quaranta volte il primo bacio è una favola tremenda, ma anche questa assume un senso. Lo sai, lo capisci. Cinicamente te ne intendi. Razionalmente pensi che tutto questo sia vero. Ma viverlo è diverso. Viverlo è vero. La fantasia, ti torna in circolo anche quella. La speranza. Temi il rifiuto, ma sai di potere contenerlo. Ti giochi tutto. Tanto vale tormentarsi per qualcosa di concreto.

Era da tanto che non mi alzavo così presto.