sabato 29 gennaio 2011

I fichi della Belafonte

Faceva un caldo infernale. Roba che a sentire Gerry Scotti si doveva ringraziare Will Carrier per aver inventato l’aria condizionata. La risposta vincente l’altra sera al Milionario.
Non avevo dormito tutta la notte e quel nome mi martellava il cervello. Carrier. Will Carrier. Willis Haviland Carrier, come lo chiamava sua madre. L’inventore dell’aria condizionata? Willis H. Carrier signori. Detto Will per gli amici. Willis? Sì, certo, come l’attore. E adesso pubblicità!

La bionda in top e hot pants se ne stava piegata sul bancone con i suoi due enormi seni puntati come missili contro di me. Faceva le fusa. Io seduto potevo ammirare tutto da quella posizione e del resto non era compito mio non darlo a vedere.
Un po’ di tutto insomma e faceva caldo, molto caldo. La guardai negli occhi e dissi “Le ripeto che non posso consegnarle il computer signorina. I nostri terminali sono attualmente fuori servizio e io devo ripararli”. Come se nulla fosse lei si sporse in avanti spingendo con le punte dei piedi. Le braccia strette contro il torace. Schioccò le labbra e disse: “La p-prego”.
Pangea e Pantalassa.
Io li vedevo. Due palloni aerostatici che si gonfiavano avanti e dietro fischiando come pentole a pressione. Sudati come alla fiera del prosciutto. Abbronzati come polli allo spiedo, quei due enormi seni mi parlavano. “Ho davvero molta fretta.” Diceva uno. “Non può essere così gentile …” aggiungeva l’altro. Mentre un po’ più sopra, mordicchiandosi il labbro inferiore e sfiorandomi con un dito la mano, la tipa lì in mezzo faceva invidia a Betty Boop. In Technicolor.
La situazione non era delle migliori: avevo caldo e la cosa mi infastidiva parecchio. Non per niente. Tutto quel ben di Dio mi pompava a mille il sangue nelle vene e ciò aumentava la sensazione di calore. Il caldo mi rendeva nervoso. Semplice. Essere nervosi non aiuta a riflettere. “L’ultima cosa al mondo di cui avrei bisogno in questo momento” pensai “non è certo farmelo venire duro!” Una cosa che non sopporto proprio. Ecco.
Il dono di Carrier al mondo quel giorno non funzionava. Oltretutto mi toccava stare lì seduto a lavorare. “Fosse stata qualsiasi altra occasione” pensavo “una qualsiasi...!” Era come trovarsi dentro un dannato pip-show con le mani legate dietro la schiena. “Signorina, la prego non insista!” sbuffai categorico.
Lei si guardò intorno un momento, come a dire “Sta dicendo a me? A queste tette? A moi” Ma rendendosi conto che non c’erano altre tette degne di nota in quella stanza si ritirò a sedere biascicando qualcosa. Ondeggiava i fianchi, con le natiche che facevano su e giù come uno Yo-yo.
Incrociai lo sguardo col tipo dietro che se la rideva e mi sentì virile come Roger Rabbit dentro la salamoia. “Guarda papà! Un pollo!”

Il motivo per cui mi trovavo lì era che un dannatissimo computer non ne voleva sapere di funzionare come Dio comanda: il computer della sala d’attesa dell’assistenza al cliente. Era questo il punto. “Dovrei stare dietro ad assemblare computer” pensavo “non qui tra i clienti in questa dannata serra”.
La sala d’attesa era effettivamente una serra. Una stanza cinque metri per tre, con un bancone, quattro sedie appoggiate al muro e nessuna finestra. Mentre dalla porta a vetri entravano luce, caldo e clienti in quantità industriale. Una serra insomma, una stramaledettissima serra in cui faceva così caldo che il mouse lasciava strisce sul tappetino come una lumaca.
Lo dissi persino al capo una volta. Entrai in quella stanza fredda come il Polo Nord e dissi “Capo, devi averci preso per delle stupide piante là dentro. Ci hai messo in una cazzo di serra. Fa un caldo che all’inferno ci si deve coprire!” “Belafonte” rispose lui senza nemmeno alzare gli occhi o muovere un muscolo “non mi interessa se a te o a qualcun altro è venuto il pollice verde. Per quanto mi riguarda potete pure prendere la vostra roba e andare a zappare! Se vi riesce di aprire la porta ovviamente.” e rise. “Maledizione” pensai. Ho sempre odiato i capi con la risposta pronta.

C’era silenzio finalmente. Pochi clienti seduti che aspettavano. Un bambino che leccava un ghiacciolo all’arancia seduto sulle ginocchia di quella che doveva essere la sua mamma. Una mamma qualsiasi. Lui però non la smetteva di fissarmi. Faceva un rumore pazzesco succhiando il ghiacciolo. Lo guardavo e smetteva. Riprendevo a lavorare e ricominciava. Così vi, continuamente. Lo faceva apposta.
Nel frattempo il computer si riavviava. Era questo il fatto. Lo accendevo e dopo qualche minuto reset. Da solo, senza neanche il bisogno di muovere il mouse. Si riavviava il maledetto. Avevo già sostituito tre banchi di ram, ma inutilmente. Erano due ore e mezza che ci lavoravo su. Tutta la mattinata in pratica. Ciononostante non riuscivo a capire cosa mi infastidisse tanto. Non era il caldo o la bionda in stile Baywatch no, né quell’odioso bambino che succhiava il ghiacciolo. “Forse tutte queste cose assieme” pensai, quando mi cadde l’occhio nuovamente sul tipo di prima e capì. Portava una maglietta a maniche corte blu con l’avviso dell’errore di sistema di Windows stampato sul petto. Bassa ironia da Geek. Praticamente sfotteva.
Così sembrava almeno. Improvvisamente però il tipo mi sorrise. Probabilmente aveva inteso ancora una volta cosa stessi pensando o non so. Si alzò molto lentamente e si avvicinò al bancone. Estrasse una pistola dalla tasca e me la puntò dritta contro il viso. Sentì il “click” del caricatore.
I pinguini facevano surf sotto le mie ascelle.

Vedevo i pinguini. La pinguina bionda con le tette al vento seduta mentre emetteva gridolini isterici ed acuti quasi in iperventilazione. Il pinguino piccolo che piangeva in braccio alla pinguina mamma. Il ghiacciolo per terra in una pozza arancione. Mamma pinguina che si stringeva il piccolo al petto e “Ssh!” faceva, “ssh!”. Il tipo con la maglietta blu di Windows ancora davanti a me con il braccio teso. “Dammi tutto quello che c’è in cassa!” diceva “E silenzio voi!”
Will Carrier pinguino disegnava sulla condensa lo schema della pompa di calore. “Aiutami Will!” E faceva ciao, faceva. Ciao, ciao con l’ala.

Dovevo fare qualcosa. La cassa era direttamente collegata al computer. Niente computer niente cassa, perciò dissi “Mi dispiace amico, ma il computer non funziona. Niente cassa”. “Come niente cassa?” Rispose e sembrò incazzarsi parecchio. Bravo Belafonte ...
 “Tu forse non hai capito che se non apri subito quella maledetta cassa io ti faccio saltare le cervella. Ti ammazzo! Lo hai capito che ti ammazzo?”
Il concetto era già chiaro la prima volta. Non restava che tentare la fortuna. Che in quel momento molto probabilmente si trovava in qualche spiaggia di Maracaibo con gli occhiali da sole e un cocktail in mano, ma non è che me ne importasse molto. Avviai il computer. Logo di Windows. Schermata di caricamento. Desktop. Dita incrociate. Spento.
“Perché l’hai spento?” disse “Non l’ho spento, amico. Te l’ho detto che non funziona. E’ da stamattina che non la smette di riavviarsi”.

Era sudatissimo. Spruzzava letteralmente sudore da tutti i pori. Sembrava una schifosa spugna con braccia, gambe e occhi di fuori. Era grasso, squadrato in viso e senza collo. Più brutto di Spongebob ed armato. Si passò una mano sulla fronte come se stesse cercando di calmarsi, ma non era calmo. Si fece rosso in viso. Sempre più rosso e meno calmo. “Dai che gli prende un collasso” pensai e mi ripromisi di cercare su Google il nome dell’inventore delle serre per ringraziarlo.
Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e si asciugò il viso. Disse “Tu vuoi proprio che io ti ammazzi.” e rivolgendosi ai clienti “Lo avete sentito no? Lui vuole che io lo ammazzi.” Poi di nuovo a me “Senti a-m-i-c-o. Io odio. Odio proprio la gente che mi chiama amico. Solo per questo motivo ti trovo già tremendamente antipatico. La vedi questa? Questa è una 6mm semiautomatica. Sai cos’è una 6mm semiautomatica? No? Beh, te lo dico io cos’è una fottutissima 6mm semiautomatica. Una semiautomatica è una cosa che è in grado di spappolarti il cranio in meno di un secondo e rinfrescare la vernice di questa schifosissima stanza con le tue cervella! Ecco cos’è una 6mm semiautomatica! Blam!” disse sputando e tirò su col naso. “Te lo spiego con calma per l’ultima volta. Se non apri subito quella dannata cassa e mi consegni tutti i dannati soldi che ci sono dentro io ti faccio un buco in testa” E così dicendo mi toccò la fronte  “Capito? Così prendi aria!” Dannazione Bob!

“La situazione non è certo delle migliori” ed io mi sentivo cretino anche solo a pensarla una frase come questa “Nonostante tutto non può andare peggio di così”. Che idiota!
“Calma, calma. Ci voleva assoluta calma e concentrazione. Pensa Belafonte. Pensa in fretta.” Ma non ce la facevo. Era la fine. Quel tipo mi avrebbe sparato ed io sarei morto senza avere avuto il tempo di dire al mio nuovo amico Haviland che in fondo lo stimavo molto. “Will tu sei già morto ora che ci penso. Verrò a trovarti su una nuvola in paradiso. Oppure all’inferno. Ovunque tu sia insomma. Guarderemo Il Milionario per tutta la notte e berremo un sacco di birra. E se fa caldo chi se ne frega, tanto dove ci sei tu fa sempre fresco Will. Ce l’hai la birra fresca vero?”

Stavo delirando. Sbuffai e crollai il capo chiudendo gli occhi. Sentì la canna della pistola che si posava sulla mia nuca sempre più pesante. “Perché diavolo non arriva nessuno?!” pensai.
“Calma. Stai calmo. Fai qualcosa, ma stai calmo” Quando riaprì gli occhi ebbi una folgorazione. “Eureka!” E il sangue tornò a fare visita al cervello. Dal piccolo buco della presa Usb sul fronte del PC faceva capolino un cavetto. Mi venne subito in mente che magari computer da ufficio vecchi come quello potessero essere stati assemblati molto in fretta con pezzi rimediati qua e là. I contatti erano logori, col tempo si sarebbero potuti bruciare. In questo caso lasciare qualcosa attaccata alla presa avrebbe potuto mandare in massa il computer, nel migliore dei casi farlo riavviare. Doveva essere così.
“Hai vinto” dissi “Hai vinto amic… Hai vinto! Ti apro subito la cassa”. Mi chinai per tirare via il cavetto (uno stupido iPod in carica) e spinsi start.
Bip!(?) Non aveva mai fatto bip. Poi di nuovo logo di Windows. Schermata di caricamento. Desktop. Dita incrociate. Anche quelle dei piedi. Schermata nera. Schermata nera. Schermata ner… Inserire password. Bingo! Dio come ti amo!.

Una cosa l’avevo capita: se la fortuna fa l’errore di tenderti un dito, tu devi tirarle forte tutta la mano e strappargliela se è il caso. Io in quel momento potevo sentirle pure l’alito. Sapeva di  menta e rum annacquato di terza mano.
Il tipo con la pistola in mano allentò la pressione “Bravo” disse “ adesso iniziamo a ragionare. Tira fuori i soldi” e con l’altra mano mi diede una pacca sulla spalla. Era il mio momento.
“Ti prego Will se non dovessi farcela dì a mia madre che sono morto da eroe. Dille che ho avuto il sangue freddissimo e tu non c’entravi nulla in tutto questo. Tu non c’eri nemmeno Will. Che amico che sei! Spero che verrai al funerale almeno. Ci conto!”
Avevo ancora in mano il cavo Usb dell’Ipod. Diedi una frustata violentissima all’indietro senza guardare e colpì il tipo sulla fronte. La botta gli aprì un taglio abbastanza profondo da farlo sanguinare. Urlò accecato. Si lanciò per dietro ed io cercai di afferrargli la pistola. Presi il suo braccio con entrambe le mani. Si divincolava. Aveva una forza pazzesca. Era tutto rosso e sporco di sangue. La bionda si mise ad urlare. La mamma si mise ad urlare. Il bambino non faceva che piangere e urlare anche lui “Porca zozza” pensai “perché non mi danno una mano?” “Non ce la faccio!” Urlai.

La bionda era sempre più agitata. Il tipo mi diede una spallata e caddi con la schiena sopra il bancone. Sparò. Un piccolo proiettile attraversò la stanza. Lo vidi passare sopra il mio naso come al rallentatore. Tirò dritto verso la porta. Superò la bionda. Schivò la mamma roteando e finì dritto contro il petto del bambino che improvvisamente tacque.
Il bimbo allungò la mano verso la ferita sporcandosi le dita. Se le guardò e riprese a piangere. La mamma sgranò talmente tanto gli occhi che per poco non gli schizzarono fuori dalle orbite. Afferrò la mano del bambino e si mise ad urlare fortissimo. Accarezzò la testa del figlio e la dipinse di rosso stringendosela al petto come un pallone. “Santo cielo!” diceva “Santo cielo!” mentre il bambino come in trance aveva smesso di piangere fissando la bocca della madre che quasi lo soffocava tra le braccia.
La bionda assistette a tutta la scena. Guardò il tizio con la maglietta blu che era rimasto con il braccio ancora teso e la pistola in mano. “Tu!” esclamò “Lurido porco! Ti rendi conto di quello che hai fatto!?” Quasi preoccupato il tipo non disse nulla. “Chiavami!” aggiunse quella. “Adesso. Chiavami. Qui!” Lui sorrise e lei si avvicinò. Iniziarono a toccarsi e a baciarsi dandoci dentro come animali sudati. Il tipo lasciò cadere la pistola. Io non credevo ai miei occhi. Erano proprio degli animali avvinghiati.

“Chiavami! Chiavami, porco!” Continuava lei con la maglietta ormai completamente rivoltata e i capezzoli di fuori. Mentre il tipo le lanciava ampie leccate gonfie di saliva e sangue su tutta la faccia. Io saltai su e mi avvicinai alla madre. Le dissi: “Signora, dobbiamo andare via di qui. Questi sono completamente matti. Suo figlio ha bisogno di cure signora, presto!”
Allungai la mano verso la ferita del bambino. Non sanguinava. Il tessuto della maglietta non sembrava nemmeno lacero. Intinsi il pollice in tutto quel rosso e annusai. Vernice. “Signora non è sangue. E’ vernice signora. La prego si calmi senta!” E così dicendo le infilai due dita sotto al naso. Lei tirò su un paio di volte e dopo qualche secondo si riebbe. Gli occhi le si illuminarono improvvisamente.

Non saprei spiegare come, né credo valga la pena intendersi più di tanto su cose come questa. Ciò che ritengo importante  è che forse chiunque in quella stessa situazione avrebbe reagito così.
La signora si alzò molto lentamente. Scostò il figlio di lato. Lo fece accomodare. Lo baciò. Si ravvivò i capelli e si avvicinò ai due che amoreggiavano. Li divise. Rivolgendosi alla bionda disse secca “Troia!” e le diede una testata in pieno viso scaraventandola contro il muro. Poi affondò le unghie nel collo di lui e con un balzo rapido gli strappò via un pezzo di orecchio con i denti. Lo sputò e si lanciò verso quello che restava. Caddero tutti e due per terra. La bionda li raggiunse tenendosi il naso che sanguinava. Urlavano. Si rotolavano. Volavano insulti e botte. Si sentì uno scoppio molto forte, forse una tetta. Il bimbo saltò dalla sedia e si impossessò della pistola. Iniziò a sparare ovunque ritinteggiando la stanza. La vernice si confuse molto rapidamente col sangue. Tutto accadde molto rapidamente. Non riuscivo più a distinguere nessuno. Stava accadendo tutto davvero molto rapidamente, ma in fondo mi interessava solo di andarmene da lì.

Non provai nemmeno a dividerli, il mio lavoro l’avevo fatto. Corsi fuori per strada e raggiunsi l’altra parte del negozio che si trovava esattamente una cinquantina di metri più sotto. Entrai dritto nell’ufficio del capo. Come sempre si stava molto freschi. “Io ho finito” dissi “ Stacco. Vado a casa e mi prendo il resto della giornata capo.” “Pollice verde?” fece lui “No, rosso” risposi mostrandogli il dito. Sgranò gli occhi. “C’è un gran casino lassù” “Problemi?” “Normale amministrazione”. Uscì e chiusi la porta. Poi la riaprì e aggiunsi “Dimenticavo di dirti che ti voglio bene capo. Davvero, tanto bene.” “Sei uno stronzo Belafonte. Proprio un gran figlio di…” e richiusi.

Quella sera davanti alla tv mi ripromisi che il giorno dopo avrei aggiustato il condizionatore di quella serra. Lo avrei fatto, oppure sarei morto lì.

(bob)

giovedì 20 gennaio 2011

L'azienda non ti tradirà mai (rapsodie e fatture blu scuro).


Questo pomeriggio arrivo quattro minuti prima del solito.

Il ragionier Bartolini stavolta mette la macchina nove metri più sotto di me. Una sana camminata non gli fa affatto male, giusto per smaltire il quattordicesimo panettone comprato al Carrefour, che di sti tempi dopo Natale te li tirano dietro manco fossero le arance al Carnevale di Ivrea. Scendo dalla macchina, mi giro, tiro un sospiro, e non passano nemmeno due secondi che do' un'occhiata all'Etna, ogni giorno di un colore maledettamente e meravigliosamente diverso.

Oggi è blu.

Robert Johnson è appena sotto la collina. Ha la chitarra in mano e continua a cantare "Crossroads", e di quando una volta aspettò così tanto inginocchiato al crocicchio della strada, che il Diavolo in persona lo convinse a stringere un patto con lui.
Poco davanti a me, scorgo chiaramente la figura di Charlie la rana... Ha un golf verde, le mani in tasca, cammina con la testa bassa rivolta perennemente al cellulare. Si dice che una volta l'abbiano visto senza, e che si sia messo a parlare normalmente, riuscendo a muovere anche il labbro superiore.
Per fortuna, quando lo incrocio, bofonchia qualcosa con la solita parlata : labbra bloccate che nemmeno l'antifurto con le palle, e il minuto di ipnosi non me lo toglie nessuno. Stessa ipnosi che mi fa venire in mente "rapsodia in blu" di Gershwin, ottima per fuggire dal terzo richiamo all'ordine e alla diciannovesima spiegazione riguardo lo storno fatture. Il tema principale di "Fantasia" mi rimbomba a cannone in testa quando do' un'occhiata distratta alle file davanti.
I rosafanti ci sono per davvero. Accanto a quello che si sta strafogando con i tappi delle penne Bic, c'è quello che ti propina frasi copia-incollate da quelle dei baci Perugina, o da qualche link di Facebook, non cambia di una virgola.

Il terzo chakra, quello del plesso solare, dell'ombelico, della milza, del fegato, mi suggerisce che è arrivato il momento di mangiare. In questo periodo sembra essere quello meglio funzionante, visto che gli altri sono relegati sotto i piedi, a fare compagnia al primo, il più becero e cinico di tutti. I bookmakers quotano quattro a uno la possibilità che il quarto, il quinto e il sesto si possano risvegliare in questi mesi. Il settimo ora come ora lasciamo stare che non è cosa, altrimenti la produttività cala e la casa degli Usher potrebbe crollare da un momento all'altro, come diceva il caro Edgar All'unpop.
Qua non piovono rane, solo acqua. La manna dal cielo per molti è il posto fisso dal quale aspettare che l'inverno, dormendogli addosso, non gli spezzi il collo in due, come la cavalletta senza testa che ci ricordava di piaghe evangeliche, pane e sale.

Domani passo a prenderti, così mi racconti di quella storia bellissima, quella sulla memoria a breve termine dei pesci, quella che ora non riesco a ricordarmi.



(Michelangelo)