sabato 22 ottobre 2011

Il duca

Da un po’ ti stai impensierendo. Come sempre
per le chiavi di casa scomparse. Hai
voglia che qualcuno ti dica qualcosa.
Di correre dietro al primo soffio di vento
della stagione. Hai voglia di urlare
cose tremende dalla finestra alle persone,
cose di quelle che non si sentono
in giro. Hai voglia di scrivere tutte le preghiere
che sai, sull’Angelo Custode, l’Ave Maria
o il Padre Eterno. Hai voglia
di sciogliere il mondo come cera a mani giunte.
Persino alle sei del mattino
con la tele ancora accesa ad un volume
che non è proprio possibile addormentarsi
disteso sul letto hai voglia di non svegliarti mai.
Però no. La ragazza col culo bello
e quel modo di fare alla John Wayne
non ha voglia di vederti sistemato. Lei
vuole sapere chi sei, quanti romanzi
nascondi nell’armadio e se puoi dirle
qualche cosa da poeta. E tu ti alzi
con la flebo che ti insegue come tua madre
quando avevi cinque anni
e danzi senza mutande un ballo lento tipo Linus
con lei e la coperta avvoltolati dietro.

(bob)


sabato 15 ottobre 2011

Groucho dammi la pistola

Di notte i sogni escono
dal cuscino e vanno in città.

Evitano i pub che si chiamano
Oblomow, Molly’s o London Tavern
e piuttosto scappano vicino
alle piazze poco illuminate, dove spesso

nelle prime ore dell’alba

si può sentirli scalciare i muri
o sbattere contro tubi in plexiglass.

Noi li aspettiamo in piedi.

Lasciamo le chiavi sotto gli zerbini
e urliamo forte se li sentiamo entrare.

Le giornate poi scorrono tranquille.

(bob)


martedì 11 ottobre 2011

P

Metti il tuo profilo migliore su Facebook
quella foto educata col prendisole celeste

e le infiorescenze tipo petardo. Il giorno

in cui tua madre ti mandò a chiamare di corsa
e nel quartiere vibrava un vento basso da mare
mentre caricavo la macchina, solo. Come

è sempre stato anche il sole non fa niente
per mettersi in mostra, più di quanto gli costa
esistere per se stesso. Non te ne accorgeresti
se non ci fosse l’ombra di un segreto
o una voce sconvolta che da dietro un angolo

ti dice “fa caldo” ogni ora.

A tanto si riduce il mio leggerti le previsioni
del tempo, risolvendo a memoria il cruciverba
dei tuoi occhi attratti da altro. A tanto si riduce

la corrente che dal finestrino socchiuso copre
con un fischio le parole d’Erode di chi ti vuole
una strada tra tante. Il rebus del mio tatuaggio

e la P che porto sul petto ridendo dentro
gli occhiali da sole. Tu che mi hai detto “per
favore portami via” quasi urlando.

(bob)

sabato 17 settembre 2011

I VITELLONI DEL 2000














Il primo vitellone è alto e magro, la giacca con lo stemma dei Limp Bizkit, nove stelle di cartone conficcate nei fianchi, e un sorriso pronto per ogni volta che lo ferma la polizia mentre torna a casa, proprio mentre già sta pregustando il trancio di pizza che ha lasciato in frigo.

Il secondo invece ha la pancetta da carboidrati e alcool, quella che non lo abbandonerà mai, nemmeno dovesse immaginarsi dentro la televendita della tipa americana che non smette mai di correre, un misto di "Ma che colpa abbiamo noi" dei Rokes e di Mr. Grady di "Shining".

Il terzo non esiste, eppure ce l'ho qui accanto mentre tenta di imparare a memoria la discografia di Celentano, quello che aveva già detto tutto in "Un albero di trenta piani", 40 anni fa'. E' senza dubbio dovuto alla sua manìa di vivere in città, la nevrosi ormai è di moda, chi non l'ha, ripudiato sarà.

Anche il vintage oramai è passato di moda.

Lo sa bene il primo vitellone, che ha mandato in mansarda il giradischi, sostituendolo con un più moderno e comodo hard disk di mille mila tera. La nonchalance con la quale cancella intere discografie, senza averle mai ascoltate, gli fa' girare il gulliver. Un pò come avere a disposizione l'intera filmografia di Fellini, scegliendo infine di vedersi una puntata di "F***o**".

Il secondo vitellone a Carnevale ha capito molte cose. Se ne è andato in giro vestito da poeta, senza nemmeno vendere o scattare fotografie virate seppia. Dopo aver parcheggiato la macchina, al solito, accanto ai cassonetti della spazzatura, ha comprato sette bolle di sapone, per poi rivenderle una volta resosi conto che il vestito da poeta non funzionava. O almeno non in quel modo.

"Semel in anno licet insanire"...

Lo insegnava anche Charles Manson alla sua "Famiglia". Sharon Tate l'aveva capito in un baleno, mentre nel riflesso del vetro del suo cocktail si intravedeva il sorriso anfetaminico di Charlie "Tex" Watson.

Il terzo vitellone ha appena preso un biglietto per andare a vedere l'esecuzione di Carlo Magno in Piazza del Popolo. Perde sette interminabili minuti a cercare il telecomando col quale cambiare canale. Più suda, più si innervosisce, e più la sua immagine si cancella. Alla fine scova un telefilm sul due, col quale si addormenta sognando sé stesso che pensa cosa mangiare.

Il primo vitellone adora i gruppi cover. Si fanno un botto di soldi con i gruppi cover. A dire il vero poi, è anche estasiato dalla perfezione maniacale con cui riproducono le canzoni dei suoi beniamini. Vorrebbe tanto metter su un gruppo cover di De Andrè. Non importa se sarebbe il sesto solamente nella sua città. E poi, male che vada, rimarrebbero le opzioni Rino Gaetano e Impaled Nazarene, coi secondi favoriti sul primo.

Il secondo vitellone ora ha deciso che deve avere un fisico perfetto. Si è piazzato in casa un set da palestra incredibilmente costoso : pettorali alti, bassi, interni ed esterni; addominali bassi e alti; bicipiti, tricipiti, dorsali, niente deve sfuggire al controllo suo e dei carboidrati che ormai assume una volta sola a settimana. Condimenti ridotti all’osso, niente fritture, grassi, alcool e sigarette. Solo una marea di creatina e anabolizzanti che gli fanno fare spesso quell’incubo in cui lui rimane da solo al concerto dei Modena City Ramblers.

Il terzo vitellone a festa Madonna vuole sapere sempre dove si trova la gente, in che posto la maggior parte delle persone va a mangiarsi il panino con la salsiccia, dove conviene mettersi per vedere meglio i fuochi d’artificio. Non si è mai ricordato un incubo, né un sogno, e la notte dorme con la televisione perennemente su Italia Uno a volumi che nemmeno gli Iron Maiden al rock in Rio, la luce accesa, il pavimento invaso da bottiglie di birra e cartoni di pizza, dai quali spesso prendono forma i suoi più cari amici, con i quali decide le quote Snai più succulente del weekend.

Il primo vitellone è morto questa mattina.

Riverso sul pavimento, sembrava dormisse. Gli altri due vitelloni, appena arrivati a prenderlo per portarlo al lago, si sono fermati una decina di minuti a pensare milioni di cose. Nessuno dei due, anche a sei anni di distanza, si ricorderà quale album stesse sparando forte dalle casse. Non avesse relegato in mansarda quel giradischi, uno dei due sarebbe andato ad alzare la puntina prima di posare il disco e stamparsi l’immagine di copertina in eterno nel gulliver.

(Michelangelo)

mercoledì 27 luglio 2011

.trasloco

da una discussione sulla via del folle vien fuori che il caso è il marito della casa. Paradossalmente, o forse no, la casa è il luogo della calma e della tranquillità, dove è tutto familiare. Niente batticuore, niente di sconosciuto o di straordinario. Il caso è il momento dell'incertezza per eccellenza, del fuori controllo che comunque accadrà. Ma per gioco o per amore ci si può trovare a cambiare casa di continuo, spostandosi quasi a caso, con movimenti roteanti o squadrati che siano.

(Matteo)

venerdì 22 luglio 2011

Finto impero

Voglio un bel ritorno per te
dentro una scusa muta e lenta
come un crollo di scale; dentro

un bovindo esagerato
spinta verso altre catene
da una fiamma di contrariate
voci, le tue. Come

un coro di cicale o il segno
rovinoso delle nocche
sotto l’acqua che le ha lavate

e dice ogni segreto di questa notte
che fa da tappeto all’interno
bar del petto

pieno di sedie disabitate.

(bob)


venerdì 15 luglio 2011

Tiramolla

Il volto di mia zia pieno di rughe, con i tubi che escono dappertutto. Dalle braccia, dalle gambe, persino da una seconda bocca lungo il fianco destro. Il volto di mia zia che dorme con due occhi come se l’avessero presa a pugni. Una cover di Drake nelle orecchie. Che gratta.
La trovo così. Con questa dannata cover nelle orecchie e lei che parla a qualche santa o con la copia di me stesso vestito di frutta marcia. Mia zia che sente le voci e le vede. Ogni tanto gli risponde pure. Persa a contemplare un muro bianco.
A 19 anni non sopportavo l’idea di prendermi cura di qualcuno. Ancora oggi se ci penso mi viene la nausea. Mettere le mani addosso a qualcun altro per accompagnarlo a fare tutto. Tutto. La pipì, a passeggio, a cambiarsi. Anche scendere dal letto o risalirci. Mangiare. Bere.
Ritrovarsi a imboccare qualcuno. A fare tutto il resto di cui sopra. Ritrovarsi a farlo e basta, senza pensarci su neanche un momento. Fare, fare, fare. Pura azione.
Probabilmente è questo, non si deve pensare. A vent’anni si ha l’incubo della prestazione, della pratica. Non si sa ancora che teoria e pratica sono come il corpo e l’anima, due cose che non tengono assieme nemmeno con la colla. Tu devi essere la gomma.
Mangiare, bere. “Zia, devi mangiare e bere, altrimenti non ti rimetti più” E lei che fa di sì col capo “Zia hai mandato giù?” Ancora sì col capo “Fammi vedere” Sì, col capo. Poi apre la bocca e cade tutto. Io allungo una mano e afferro al volo una polpetta masticata di merluzzo, insalata e saliva come se niente fosse. La butto nel cestino e le allungo un fazzoletto. “Zia devi mandare giù” Sì, col capo. “Zia!” sempre più spazientito. Lei allunga una mano e in un lampo si infila in bocca un pezzo di pane grosso quanto il mio pugno. “Zia guarda che ti soffochi.”
Tra dieci giorni mi laureo. Finalmente direi. Sono otto anni. Divoro libri come se mi mangiassi le unghie, nervosamente. E nervosamente mi lamento di non fare altro che studiare. Divoro libri, è la sola cosa che so fare bene. Darmi completamente al testo. E ora sono qui, non tocco la tesi da troppo tempo ormai. Non ricordo niente, non riesco a pensare a niente. Siamo a luglio, fa un caldo infernale. Sono nervoso. Non prendo sole da cinque anni se si esclude qualche scottatura ogni tanto. Troppo poco tempo, troppa fatica. Troppi libri da leggere e due occhi soltanto per farlo. In questo momento potrei essere a mare, sotto un ombrellone o nell’acqua. Sono tre anni che soffro di reumatismi. Il medico dice “devi prendere sole, non c’è altro rimedio alla tua età”. Si vede che nemmeno il sole attacca su di me. Sono come Tiramolla io.
Mia zia che non vuole proprio saperne di mangiare “ma dai zia, il pesce l’hai sempre mangiato, è buono. Guarda lo provo anche io”dico. E lo provo veramente, non per finta come pensavo si facesse in questi casi. Non era male. “Zia che viziata che sei” La costringo a masticare tutto e a mandare giù “Prova con l’acqua” Lei ubbidisce perché è proprio il sapore a non andarle giù. Le faccio dire “Aaa!” e le conto i denti. Ci sono tutti, più o meno.
A tratti penso che lo faccia apposta. Mi spazientisco. Alzo la voce e cerco di forzarla, ma non attacca. Lei inizia a tremare. Insisto. Non attacca. Trema ancora di più. Si sforza a mangiare. Crolla la testa. “Zia alza il collo altrimenti il cibo non passa”. Sì, col capo, ma resta giù. Le tiro su la testa tenendola per la fronte come un ubriaco. “Zia, guardami” Le dico. Sì, col capo. “No, è inutile che dici di sì, se poi fai il contrario” Sì, col capo. “Mangiamo?” “Mangia tu!” Che peste.
“Ma lo sai che sei curiosa?” Le dico innervosendomi sempre di più. “Come i bambini fai. Ma dico, hai sessant’anni ormai.”Urlo. “Che facciamo, regrediamo?” Crolla ancora il capo.
Mi allontano di qualche passo. Faccio avanti e dietro. La guardo seduta su quella sedia blu di vimini dimagrita di 20 kili in una settimana. E’ piena di grinze. I seni le arrivano quasi alle ginocchia. Sembrano due grosse bisacce legate al collo. Ha addosso una camicia da notte rosa con i cuoricini. Anche i bottoni sono a forma di cuore. Sotto porta un pannolone verde. Anche quello visto da lontano sembra proprio un cuore.
Mi ritrovo a pensare che quella sedia è blu come la tristezza. Chair to Blue. Mi calmo. Mi avvicino di nuovo, la prendo per il mento e le tiro su la testa. Ci guardiamo dritti negli occhi. Sta piangendo. “Che fai piangi?” Le asciugo le lacrime come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. “Non ti devi sentire assillata zia, se mi innervosisco è perché ti voglio bene. Se non mangi ti senti male, lo capisci?” Fa sì col capo. “Non importa se non riesci a mangiare tutto in una volta. Mastica a lungo, non ho fretta. Se non mastichi poi ti senti male. Non ho fretta” Con una tenerezza che non credevo possibile.
Alla fine mangia tutto, o quasi. Divora letteralmente la frutta. Le piacciono le cose dolci, penso. Probabilmente ha la bocca amara per i farmaci. Mi riprometto di portarle un succo di frutta. “Ti piace?” Lei mi chiede una carbonara. Rido e le dico qualcosa che la fa ridere. Mi fa “Occhi belli, ma lo sai che sei simpatico?” “Fai la ruffiana zia? Guarda che comunque domani ti faccio mangiare tutto” Ride.
Cinque minuti dopo mi chiede di portarla in bagno. Ha un catetere non può farlo. Sono due settimane che è così, ma lei insiste. “Fammi andare lo stesso” Due settimane in questo modo.
Mi ritrovo a non pensare a niente. Alle nove di sera arriva l’infermiera di notte. La zia si incupisce. La farà in bianco anche questa sera. Chiedo alla ragazza di cambiarla l’indomani mattina prima del mio arrivo. È una ragazza robusta della mia stessa età. Si chiama Francesca, mi dice di darle del tu. Per l’ennesima volta.
Saluto la zia e scappo prima che chiudano il portone. Salgo in macchina e imbocco l’autostrada fino a casa. Alla radio passano Way to Blue, l’originale. Era una strada dopotutto. Non so come abbia fatto a non ricordarmelo.

(bob)

mercoledì 8 giugno 2011

Io dico che hai barato ragazzo

Scrivere, scrivere. Molti lo prendono come uno scherzo. Più o meno tutti in realtà, ma non è affatto così. Troppi luoghi comuni. Anche chi lo associa all’alcol non ha tutti i torti, ma neanche bere è questa gran cosa di cui si parla. Chiunque, e dico chiunque, sostenga il contrario è un cazzaro. Uno che non è mai andato oltre il frizzantino a capodanno. Bere è la cosa più fottutamente schifosa che si possa fare.
Intendiamoci, perché beviamo? “Bevo perché mi fa stare bene” sostiene la tipa di turno che ti vorresti scopare. “Bevo perché mi annoio” è invece un evergreen da adolescenti , con le loro sigarette in bocca che non facevano alternativo nemmeno quando ci andavo a scuola io e mi facevo di Nastro Azzurro. Cazzo ragazzi bevetevi un po’ di latte.
In realtà, vi dico, si beve perché l’alcol è una risposta. Il punto è, quindi, comprendere la domanda.
L’articolo 100 del codice di procedura civile della Repubblica Italiana sancisce la più grande fottuta santa ovvietà di questo mondo. Per proporre una domanda devi averne interesse. La domanda molto probabilmente sarà “Porco cazzo, che c’è che non va?” , mentre il tuo interesse è ben piantato sul tuo culo. Perché ciò che ti interessa sostanzialmente sei tu, quell’escrescenza che si dilata dalla cintola fin sopra l’ombelico e ha due gambe abbastanza robuste per alzarsi e andare a prendere un’altra birra in frigo per non farsi più domande da stronzi come questa. Perciò bere è una cosa come un’altra a cui si arriva, perché ti viene prospettata sempre e comunque come la risposta più semplice a qualsiasi domanda tu ti possa fare. Alzati. Basta avere un portafogli pieno. La tua tipa fa pompini a tutto il quartiere? Bevici su e non ci pensare. Non riesci a trovare un lavoro? Porca troia una birra la rimedi in qualche modo compare. Sei talmente basso che hai bisogno di una mano per alzare la tavoletta del cesso perché da solo proprio non ce la fai? Beh, molto probabilmente non lo sei abbastanza nemmeno per ordinare da bere a un bancone, perciò mi dispiace dirtelo ma sei fottuto amico. Fatti aiutare.
In ogni modo, nel caso migliore, ciò non toglie che bere è sempre una risposta pronta. Anzi LA risposta. Una risposta bella, già fatta e imbottigliata. In primo luogo, leggera ed esaltante, galvanizzante, esuberante, rinfrancante, eclettico-energizzante. Poi sempre meno, meno, meno.
Non mi riferisco soltanto ai postumi, che poi tanto non ci pensi mai quando arrivi al punto in cui dici “cazzo ho proprio voglia di bere”. Parlo dei problemi seri. Quelli molto seri. Gastrite, cirrosi, impotenza, delirium tremens. No, cioè, amico, dico. Impotenza?. I-M-P-O-T-E-N-Z-A. Uno inizia a bere, proprio perché magari gli sembra il modo migliore per rimorchiare la tipa di cui sopra. Un drink qua, ti offro una birra là, e poi all’atto pratico nemmeno tutto il gruppo delle ragazze pon pon dell’università del Commonwealth del Massachusetts in preda a voglie isteriche di sperma , detentrici del guinness dei primati per l’ingoio profondo di gruppo più lungo della storia riuscirebbe anche solo a fartelo rizzare. Capisci che è un a bella fregatura? Hai un corpo cavernoso e senza eco che ti penzola giù dal pube come un foglietto di carta arrotolato. È quella roba è il TUO pene.
Ma torniamo a noi. Parlavamo di scrivere. Beh, scrivere assomiglia molto al bere dicevo. E’ la stessa porca roba schifosa. Eccitante magari, fino ad un certo punto, ma poi si riduce ad una tortura. Tortura spirituale.
Se esiste un’anima, quel po’ di buono che abita questo corpo rognoso che ci trasciniamo dietro come un sacco di patate, ecco, scrivere è come prendere uno steccone per cucinare e stringere all’angolo un topo vivo, infilzandolo lentamente da tutte le parti e fin dentro al tubero del cervello. Solo che quel topo è la tua anima, cioè una palletta d’organza che si muove con dentro sentimenti, ricordi, impressioni, idee, speranze e quant’altro, stipati dentro come confetti colorati, che non fanno altro che bucarsi, rimarginarsi e ricomporsi e produrre un suono tipo crack! ogni volta che la stuzzichi, dandoti allo stesso tempo la possibilità di ferire e incidere più e più volte anche la stessa parte. La tua anima è quadrimensionale, è come il fegato di Prometeo, non te l’hanno detto? Non è vera carne, non fa il callo, la parte sana è malamente sana, ma un po’ meno ogni volta che la incidi ancora alla potenza della prima volta in funzione di ics, con questo steccone che non si consuma mai e non si capisce da dove tu l’abbia tirato fuori. E nessuno riesce a togliertelo dalle mani. E’ un po’ come se ti trovassi davanti Terence Hill che ti schiaffeggia e ti punta la pistola con la stessa mano nello stesso istante in cui senti l’impatto delle sue dita sulla tua guancia. Non ci capisci niente e pensi che in realtà quel tipo lì è quel dannato iettatore di Don Matteo e che molto probabilmente tutti gli schiaffi che ti stai prendendo sono dovuti al fatto che ti stai afferrando il pacco come nemmeno se ti trovassi in barriera durante una punizione del miglior Roberto Carlos facendo gli scongiuri. Che quelli come Don Matteo portano sfiga, si sa, ovunque vanno ci scappa il morto. Perciò tu vorresti levare le mani di lì cercando magari di parare qualche colpo, però in realtà il peso dei polpastrelli sulle tue zone erogene agisce sulla pressione del sangue delle vene arteriose che hai sul pene producendo quella sensazione di leggero piacere appena precedente all’erezione. Situazione che ti procura certamente non poco e dosato godimento, al punto che concentrato su ciò che sta accadendo nel cimitero sconsacrato che sono le tue mutande ormai da un po’ di anni a questa parte, arrivi quasi a dimenticare che Terence Hill chissà come e chissà perché ti sta prendendo a schiaffi come solo il miglior Trinità di quando continuavano a chiamarlo così saprebbe fare. Mentre il suo essere allo stesso tempo Don Matteo, dono di Dio alle donne, rende altamente probabile che ci sia dietro di te un assassino pronto a ficcarti 10 cm di acciaio inox nelle spalle e poi grazie al cazzo che il Don Matteo in questione che stava là a guardare in un paesino di 150 anime compresi cani e gatti riesce a scoprire chi è il colpevole. Grazie al cazzo Don Matteo, davvero.
Prendiamo fiato.
In pratica scrivere è un po’ tutto questo gran casino di roba qui con cui devi fare i conti ogni volta che prendi una penna in mano o ti metti di fronte ad una macchina da scrivere o un computer. Che alla fine ti rendi conto che sarebbe molto più semplice armarsi di coraggio e fermare quella tipa simil-Jennifer Aniston troppo figa che ti fa sentire peggio del più pusillanime degli sfigati coi suoi hotpants inguinali, per dirle semplicemente “vorrei scopare con te come se fossi l’unica donna degna di essere amata da che esistono forme di vita con le tette su questo pianeta di merda. Capaci come siamo stati noi di inventarsi una cosa così complicata e fottuta come l’amore, che mi fa dire che nel momento in cui ti ho vista ho realizzato che il resto delle cose che ci girano attorno come le stelle, i piccioni che cagano per terra, le cicche delle sigarette e i gas di scarico nei polmoni dei ciclisti, sembrano sfocate con lo strumento brucia del Photoshop di Adobe quando ti vedo passare. Perciò” prendi fiato un'altra volta “il semplice fatto  di toccare le tue labbra con le mie potrebbe essere come dare vita a nuovi universi inesplorati e magari più belli e irraggiungibili rispetto a questo buco nero in cui Dio ci ha fatto incontrare, magari proprio per rimediare alle stronzate che lui stesso aveva tirato fuori quando si faceva troppe pere e un bel giorno si mise in testa di creare il mondo. E magari può non sembrarti bello o romantico, o chissà cosa, darsi uno di quei baci appassionati stile The End che si vedono nei film americani in questa piazzetta buia che ricorda l’anello peloso del buco del culo di un guidatore di Tir danese ubriaco fracido, ma in questo momento sono abbastanza fatto per dirti che ti amo”.

(bob)




mercoledì 25 maggio 2011

.ero io

in fila allo stesso bar, forse lo stesso pensiero nella testa, abbiamo parlato, mi hai offerto la tua mano, ma quando ti ho chiesto "perché hai ucciso?" hai avuto paura? Non lo hai accettato? o semplicemente, hai voluto giocare e lasciarmi ad aspettare. "Devo guidare e fuori piove" così mi hai risposto, era una giustificazione? perché non hai ancora imparato a contare? Sembravi disperata, ma non lo eri. Quello disperato ero io.

(Matteo)

lunedì 23 maggio 2011

.puzza di prete

Era proprio brutto l’uomo seduto davanti a me, era brutto anche il treno, brutto e puzzava di prete. Aveva una faccia da cellulare, con dei grossi bottoni quadrati e luminosi, due paia d’occhiali e una cravatta. Parecchio spazio tra i capelli, guardava l’ora e appoggiava la mano al mento, portando un dito all’orecchio come a pensare. Il pantalone di un giallo ingiallito non gli copriva la caviglia ma gli arrivava ben oltre l’ombelico, fosse arrivato al collo sarebbe stato tutto più comodo. Ma ecco che nell’atto del leggere “messa di sant’Antonino” decide di rilassarsi da spregiudicato: con delicatezza e senza suoni attorno, si slaccia la scarpa, ne allarga le stringhe e poi la riallaccia. Eccolo, libero finalmente.

(Matteo)

sabato 21 maggio 2011

"Del resto da due ore siamo a Sparta."










Domani è un gran giorno.

Si dice debba arrivare Roderico, con tutta la sua schiera da Ortona, a spiegarci come appendere la coscienza al chiodo, senza rischiare di risfoderarla nemmeno nell'ora d'aria.

Mi sa che prenderò in prestito i tuoi occhi, quelli con cui a volte vedo le cose del mondo, e sto molto meglio del solito. Ti guardassi bene con quelli, sapresti che quando ti parlo vorrei solo una cosa. Invece indosso quasi sempre i miei. Te ne accorgeresti che, probabilmente, mentre mi stai a raccontare storie in maniera appassionata, rimpiango di non avere in sottofondo un pezzo qualsiasi dei "Mayhem" che mi ricordi come spesso la forma sia più importante del contenuto. Chiedere alle cervella di "Dead" che infestano una canzone dolcissima di nome "Fragola". Avessi i controlli del mixer, alzerei il volume della tua voce, ma solo e soltanto per dare un degno sottofondo a quella canzone.

Capisco che deve essere già domani quando mi trovo davanti la schiera di Roderico al gran completo. Hanno tutti un accento diverso, ma la stessa espressione di chi si trova dentro fino al collo in una situazione, pur non riuscendo a ricordarsi quando e perchè tutto ebbe inizio. Si passano una gomma da masticare di bocca in bocca, quando finisce uno, ha già iniziato l'altro, mentre la gomma assume sempre più un sapore di plastica.
Io sto zitto, aspetto che inizino a dire qualcosa, rimpiango di essermi dimenticato il libro sul comodino davanti al cesso. Unica soluzione, pensare a "Boys" di "Please Please Me", e alla voce niente male, checchè se ne dica, di Ringo Starr. Roderico prende la parola, inizia a spiegare come funziona il tutto, quante sono le parti di saccarosio dovute ad ognuno, quanti i saluti da non ricambiare, e quante le monete da elargire al volenteroso marocchino che da anni staziona davanti alla sbarra, e che, no, proprio non si può mandare a casa. Altrimenti si passerebbe per intolleranti.

Non ho capito mai come debba fare ad intonare il viso alla cravatta. E comunque non devo preoccuparmi, perchè Roderico e i suoi seguaci sono qui davanti a me anche per questo.

Nel frattempo arriva Mara trafelata, un'aggiustata al bordo del vestito, una schiarita di voce, e in men che non si dica l'elenco è diramato. Mi chiedo se si sia impegnata a dare un senso alla divisione delle squadre di biondi e mori, anche se è più probabile una scelta casuale, dettata dal lancio di pizzini nella piscina del ragioniere, lo stesso metodo usato da Vasco Brondi per i suoi testi.

C'è un'assistente di Roderico che fa' finta di niente, ma ogni volta che da' un'occhiata alla sala riesce a incrociare puntualmente il mio sguardo. Ci metto assai a capire cosa dovrei fare, se continuare a dimostrare indifferenza, oppure iniziare a ricambiare quegli sguardi ambigui, magari soffermandomi sulla scollatura della camicietta viola. Tralaltro non riesco a ricordarmi quali occhi idossi quest'oggi, nè in caso chi me li abbia prestati, perchè inizia a fare caldo, e la mia testa inizia a ciondolare dal sonno. Mi viene in mente l'incubo di stanotte, terminato nella metro stile "Lion Trophy Show" infestata dagli zombies.

Devo avere dormito almeno quattro abbondanti minuti. Per averne la controprova, mi metto a fare subito il gioco del "trova le differenze".
a) Di Roderico e della sua schiera, compresa la ninfomane assistente, non v'è più traccia.
b) la squadra delle bionde è stata sostituita da quella dei pelati, provenienti forse dal reparto 92, ossìa "progettazione e realizzo buoni propositi per l'anno nuovo".
c) qualcuno mi ha piazzato degli auricolari da cui risuona "Sea Song" di Robert Wyatt.

Esco a fare due passi.

Mi muovo in base all'inerzia dello scirocco che per l'occasione sta portando a spasso la busta di plastica di "American Beauty". Mi volto di scatto, preso dalla curiosità mista a terrore di vedere se dietro di me c'è il tipo con la telecamera che la sta riprendendo.

Non c'è, almeno non lui.

E' Roderico.

Mi stampa un sorriso malinconico. Mi chiede se ho da accendere. Rispondo che non fumo da ferragosto, da quando a Londra ho comprato un pacco di tabacco con un'immagine di un tumore alla gola grande quanto un pallone da calcio. Si mette a ridere forte. Lo lascio andare in balìa dello scirocco.

Prima di andarmene, per un attimo penso di sbarazzarmi degli occhi che mi hai prestato. Poi penso al fatto che è meglio che me li tenga, se proprio ho deciso che voglio portarti a letto. E ti giuro non saprai mai ch'io credo tu non valga molto in fondo. Te lo giuro.


(Michelangelo)

domenica 15 maggio 2011

Habeas Corpus

La bocca rotta del lunotto posteriore
non era seta per i tuoi denti farfalla,
piuttosto stretta se la guardi da fuori
non abbastanza per il mondo interiore.
Giocavi attenta col filtro silenziatore
e una mano seguiva l’altra senza toccarla
(alle dodici e trenta un clangore di concerto
fa scacco al Re, una porta si allarma).
“Listen” dicevi “someone, or someone else”
e ti sfioravo con un dito la gamba;

disperato disperavo e poi stomp,
in un cono di luce gialla. Ora che ridi pupa
e la tua voce è una croce di carta, l’upupa
stride il becco contro la persiana più bassa.
Ora che ridi sporca di gelso chissà dove
a malincuore posso spiegarlo a me stesso,
ora che ridi amore esci di nuovo e allarga
le braccia, sotto la pioggia c’è un albero
che non so come si torce e mi parla.

(bob)

mercoledì 27 aprile 2011

PEGI 17

“Torno a casa” penso “e scrivo
la più bella poesia del mondo” col Jhonny
Walker versato a ridosso e un principio
di autocombustione sul petto. Nudo
 sul mio letto. “Parlo di tramonti
interminabili, di estintori e di cadaveri
soldati uniti in cerchio mentre fuori
piove.” Chiedo “un Lagavulin” secco
e il cameriere

mi fa quasi un complimento. Faccio
finta di non essermene accorto e mi alzo
senza attendere il resto. Condivido
qualche cosa sul registro all’ingresso
firmando ‘Molasses Roberto: presunto
fesso’. La signora di fronte ha letto,
però distoglie lo sguardo distrattamente.
Le sorrido con le borse degli occhi e poi
esco. Piove, solamente un po’ più forte.

Al rientro siedo rapido al computer
e lo accendo. Di là mio padre russa
come all’inferno, che non sembra vero
pensare che qualcun altro gli dorma
accanto; però è così. Stacco un post-it
dal blocchetto e segno: ‘Ore 5 p.m. –
Ricordarsi di prendere Martina in centro.’
Lo incollo sullo schermo. Controllo la posta
e poi spengo. Con la ventola che rantola
polvere. Tossisco. Mi riprometto di smettere
domani al più presto.

Vado in bagno. Mi caccio la lente e mi guardo
un po’ allo specchio un foruncolo sul naso.
Lo gratto, non esce niente. Sciacquo bene
il viso, mi svesto e sono pronto. Mi sento una
lingua mentre scivolo nel letto. Il bicchiere
di lato, la TV a volume basso. Sistemo il cuscino
dietro la schiena e mi addormento. Non so cosa
avrò scritto al mio risveglio, non lo so veramente.

(bob) 

mercoledì 13 aprile 2011

Joe Corvo















"Hai gli occhi rossi".

"Non è vero... al massimo verdi".

"Non è che hai fumato anche questa volta?"

"Non è che ogni volta che ti racconto dei sogni che faccio, devi pensare ch'io mi sia fumato qualche erba ancestrale, oppure mi sia bevuto l'Ayahuasca del Lidl, quello in offerta accanto al semolino... certe cose le sogno e basta, ho sempre sognato cose piuttosto strane..."

L'altra volta ti ho sognata, e come nella realtà non riuscivi a capire quello che ti dicevo, tranne la parte sul Campari, che fino a qualche anno fa' conteneva un colorante a base di insetti simili alle coccinelle (cocciniglia credo si chiamasse). Da quando te lo raccontai, ti dedicasti alle virtù benefiche del rum e cola, tuo compagno fedele di saccarosio e poesie che per fortuna non mi sognavo di scrivere nemmeno a quindici anni. Perdìo ma come diavolo si può pretendere di scrivere quelle smancerie trite e ritrite per poi convincersi che siano dei pensieri profondi? Vecchio Hank aiutala tu a fottersene della forma, guidala nel tuo più bel puttanaio, falle capire che la donna perfetta spesso è quella che non ritorna a prendersi l'orecchino che ha lasciato sul comò. Se ne fotte lei dell'orecchino, capisci? Se ne fa' comprare un altro.

Però in fondo ti voglio bene.

Lo sai quanto mi abbiano traviato le dilatazioni del post-rock, non è colpa mia. E mi fa' piacere se ci vedi De Andrè mentre io credo siano i Labradford, o se ci sentirai De Gregori e invece saranno gli At the gates. In fondo, quando Gotek sparava bossoli in quella fabbrica di Carsoli, a far da contraltare alla cassa dritta c'era Claudio Villa, gentilmente omaggiato dalla mia serotonina, per l'occasione smossa dal cristallo che mi faceva vedere Bret Eston Ellis al posto di De Amicis.

"Mi hai stancato con tutte queste citazioni e queste cose incompresibili, mi sa che vado di là a seppellire Joe Corvo, amante focoso e marito fedele".

Quella volta M. seppellì per davvero Joe Corvo, proprio nel nostro giardino, sotto l'albero incrociato a metà fra arancio e limone, quello che il padrone Giovanni Senza Terra a quest'ora starà contendendo legalmente a qualcuno.

Comunque M. non era ospite mia, bensì del mio coinquilino. Credo gliel'abbia data due o tre volte, lui sicuramente non era affatto innamorato, lei manco, era un modo per passare una settimana diversa, capendo che forse era passato troppo tempo senza che se ne fossero accorti. Prima di andarsene non ha lasciato orecchini sul comò, ma un libro con una dedica : " A miky occhi blu".

Se ci ripenso, oggi, tre cose mi fanno sorridere.

La prima è che ho gli occhi a metà fra verde e marrone.

La seconda, è che i film con Hugh Grant mi fanno cagare.

La terza, è che non ho letto mai quel libro, mentre il mio coinquilino l'ha finito tutto in quattro giorni, ovviamente dopo avermi chiesto se potevo prestarglielo.



(Michelangelo)

domenica 13 febbraio 2011

Next generation

Il ragazzino davanti a me legge un Dylan Dog. E’ vestito come uno della sua età. Scarpe da tennis, jeans, maglietta degli Iron Maiden e camicia a scacchi bianca sbottonata sul davanti. Vestono ancora così. Tra le gambe ha uno zaino Seven color kaki con tre spille attaccate sopra: il simbolo di Batman, la scritta The Rocky Horror Picture Show e 1Up. Tiene in mano La Zona del Crepuscolo, il numero sette. Ha la copertina pieghevole. Non è un book e le pagine dentro sembrano ingiallite. Chissà come l’ha avuto.
Sono sul 118 per l’ospedale, di ritorno a casa. Ho preso questo autobus per quasi dieci anni ai tempi della scuola. Poi –niente- la macchina.
Il fatto è che me l’hanno rubata due settimane fa e perciò mi tocca. Il giovane alza lo sguardo e si accorge che lo sto fissando. Arrossisce. Fa finta di niente e ripone l’albo nello zaino. Riesco a scorgere la linguetta gialla della seconda ristampa. “Non ne vale la pena” mi dico. "Non ti sto giudicando." Con una graphic novel non l’avrebbe fatto.
Mio padre non mi ha mai detto niente quando leggevo un fumetto. Lo faceva anche lui. Tiene da parte una collezione immensa di Topolino stipata dentro degli scatoloni nel sottoscala. Vanta di avere il numero uno, ma non ce l’ha mai fatto vedere, a me e a mio fratello. Amava anche Crepax e Schulz. E Milo Manara ovviamente. Ma questo era tanto tempo fa. Vivevamo in una casa più piccola allora. Ed io non avevo la patente.
Il ragazzo si alza, indossa lo zaino e scende alla prima fermata. Avrei voluto consigliargli di leggere Edgar Allan Poe. Rivelazione mesmerica lo scoprì proprio grazie a Dylan Dog –superbo- e da allora tutto il resto. Torna a casa ragazzo, non è così importante. Magari faranno qualche replica dei Simpson e sarà la stessa cosa. Vai.

Sono rimasto solo. Ai miei tempi anche io mi portavo dietro qualcosa da leggere. Nei momenti come questo rimpiango la PSP che ho dato via. Mi giro e vedo scorrere la città dal finestrino. I manifesti pubblicitari attaccati l’uno sopra l’altro a cinque centimetri dal muro. Gli STOP a forma di omino con qualcosa nei pantaloni. I muri dei palazzi ingrigiti dall’anidride solforosa. I tombini divelti dopo l’ultimo acquazzone. Penso a quell’articolo che ho letto stamattina in bagno. Dava la colpa al nome se i videogiochi non vengono presi in considerazione. Mi pare. Mi domando se l’autore sappia cosa sono le consuetudini di riconoscimento. Se sa che a sentire Umberto Eco il giocare è secondo un illuminista uno dei cinque bisogni fondamentali dell’uomo. Che cosa ne pensa del carnevale.
Scendo. A casa trovo mia madre a letto. La TV accesa, la PS3 e il pad in mano. Sta giocando ad Heavy Rain. E’ sotto le coperte e senza parrucca. Fa freddo. Sembra un Helgast senza casco. Ecco cosa non sopporto di quel gioco, è casual. Una patita di Fox Crime come lei, figuriamoci. Io invece avrei di meglio da fare, ma devo mettermi a lavoro. David Foster Wallace aveva ragione, siamo una società ossessionata dall’intrattenimento. Passo il 60% del mio tempo davanti ad uno schermo. Per quanto mi riguarda Heavy Rain è l’equivalente della “mucca fa mu”. Faccio un cenno per farle capire che sono tornato e passo oltre. Lei dice qualcosa, credo. “Il merlo fa me”. Le mamme ti leggono nel cervello, come il Simon.
Penso ad Angela che al telefono mi ha detto “non fare come mio padre” mentre insistevo per spiegarle chi è Donkey Kong. “So che sono nata dopo i Pink Floyd” ed io “non è questo, è come Super Mario. E lui ha la mia età.” Probabilmente suo padre aveva un poster di Syd Barret in camera o di Che Guevara, non so. Io ho Gordon Freeman, invece, e credo che ci sia differenza. Non so se farmene una colpa, ma è difficile non pensare a Supergiovane in questi casi. “La maggior parte delle cose che vale la pena aver visto sono accadute prima che noi nascessimo.” le ho detto. Però dai, non l’abbiamo mica scelto noi di nascere adesso. Ho anche qualche stampa di Cézanne appesa al muro per essere, persino un Pokémon si chiamava così, ma so che è una cosa stupida da dire.

La giornata passa in questo modo. Certe cose ti toccano dentro come si dice. E in quel dentro ci puoi mettere una marea di cose, come la gonna di Eta Beta. Ancora mio padre che una volta a natale commentava che i tempi sono cambiati “si è mai sentito dire” urlava “che ad una laurea si regala una console? “ Il lamento di Otacon per la morte di Naomi a cui penso ogni volta che mi sento triste. I luoghi comuni che sono come boomerang e più li allontani e più tornano indietro. Mio nonno che mi insegnò a leggere e che un giorno buttò nella spazzatura la mia copia del Piccolo principe. Perché stavo perdendo tempo diceva. E forse aveva ragione.
Non so se con i miei figli farò le stesse cose. Già me li immagino mentre giocano la sera con la copia di Zelda che avrò regalato loro e stanno per sconfiggere Ganondorf per la prima volta. Gli manca poco, ma gli ho già detto di andare a dormire. Di chiudere quell’affare avrò detto. E loro “aspetta, ancora un poco, abbiamo quasi finito”. Mi vergognerò di aver usato quella parola –affare- ma c’è tempo e modo. “Insomma, sempre con quei giochini, si può sapere quando crescerete?” E mi piazzerò davanti allo schermo spegnendo la console. Li sentirò lamentarsi, ma dovrò fare il padre “via a letto! O ve la sequestro!” Abbracciala, abbracciali, abbracciateli.  Con le parole di Snake che mi frullano in testa “Perdonami. Ho fallito! Mi sono arreso alla paura! Mi sono arreso al dolore. Ho venduto la tua vita per salvare la mia! Sono una nullità, non sono l'eroe che credevi! Io non sono niente! Meryl, mi dispiace! Perdonami!”. L’occhio verde di Gordon Freeman come quello di mia madre che mi guarda fisso da dietro i Ray Ban. Il rumore di un piede di porco che scivola per terra. Donkey Kong che si batte il petto urlando. E poi ancora Naomi morta da tanto tempo.

(bob) 

sabato 29 gennaio 2011

I fichi della Belafonte

Faceva un caldo infernale. Roba che a sentire Gerry Scotti si doveva ringraziare Will Carrier per aver inventato l’aria condizionata. La risposta vincente l’altra sera al Milionario.
Non avevo dormito tutta la notte e quel nome mi martellava il cervello. Carrier. Will Carrier. Willis Haviland Carrier, come lo chiamava sua madre. L’inventore dell’aria condizionata? Willis H. Carrier signori. Detto Will per gli amici. Willis? Sì, certo, come l’attore. E adesso pubblicità!

La bionda in top e hot pants se ne stava piegata sul bancone con i suoi due enormi seni puntati come missili contro di me. Faceva le fusa. Io seduto potevo ammirare tutto da quella posizione e del resto non era compito mio non darlo a vedere.
Un po’ di tutto insomma e faceva caldo, molto caldo. La guardai negli occhi e dissi “Le ripeto che non posso consegnarle il computer signorina. I nostri terminali sono attualmente fuori servizio e io devo ripararli”. Come se nulla fosse lei si sporse in avanti spingendo con le punte dei piedi. Le braccia strette contro il torace. Schioccò le labbra e disse: “La p-prego”.
Pangea e Pantalassa.
Io li vedevo. Due palloni aerostatici che si gonfiavano avanti e dietro fischiando come pentole a pressione. Sudati come alla fiera del prosciutto. Abbronzati come polli allo spiedo, quei due enormi seni mi parlavano. “Ho davvero molta fretta.” Diceva uno. “Non può essere così gentile …” aggiungeva l’altro. Mentre un po’ più sopra, mordicchiandosi il labbro inferiore e sfiorandomi con un dito la mano, la tipa lì in mezzo faceva invidia a Betty Boop. In Technicolor.
La situazione non era delle migliori: avevo caldo e la cosa mi infastidiva parecchio. Non per niente. Tutto quel ben di Dio mi pompava a mille il sangue nelle vene e ciò aumentava la sensazione di calore. Il caldo mi rendeva nervoso. Semplice. Essere nervosi non aiuta a riflettere. “L’ultima cosa al mondo di cui avrei bisogno in questo momento” pensai “non è certo farmelo venire duro!” Una cosa che non sopporto proprio. Ecco.
Il dono di Carrier al mondo quel giorno non funzionava. Oltretutto mi toccava stare lì seduto a lavorare. “Fosse stata qualsiasi altra occasione” pensavo “una qualsiasi...!” Era come trovarsi dentro un dannato pip-show con le mani legate dietro la schiena. “Signorina, la prego non insista!” sbuffai categorico.
Lei si guardò intorno un momento, come a dire “Sta dicendo a me? A queste tette? A moi” Ma rendendosi conto che non c’erano altre tette degne di nota in quella stanza si ritirò a sedere biascicando qualcosa. Ondeggiava i fianchi, con le natiche che facevano su e giù come uno Yo-yo.
Incrociai lo sguardo col tipo dietro che se la rideva e mi sentì virile come Roger Rabbit dentro la salamoia. “Guarda papà! Un pollo!”

Il motivo per cui mi trovavo lì era che un dannatissimo computer non ne voleva sapere di funzionare come Dio comanda: il computer della sala d’attesa dell’assistenza al cliente. Era questo il punto. “Dovrei stare dietro ad assemblare computer” pensavo “non qui tra i clienti in questa dannata serra”.
La sala d’attesa era effettivamente una serra. Una stanza cinque metri per tre, con un bancone, quattro sedie appoggiate al muro e nessuna finestra. Mentre dalla porta a vetri entravano luce, caldo e clienti in quantità industriale. Una serra insomma, una stramaledettissima serra in cui faceva così caldo che il mouse lasciava strisce sul tappetino come una lumaca.
Lo dissi persino al capo una volta. Entrai in quella stanza fredda come il Polo Nord e dissi “Capo, devi averci preso per delle stupide piante là dentro. Ci hai messo in una cazzo di serra. Fa un caldo che all’inferno ci si deve coprire!” “Belafonte” rispose lui senza nemmeno alzare gli occhi o muovere un muscolo “non mi interessa se a te o a qualcun altro è venuto il pollice verde. Per quanto mi riguarda potete pure prendere la vostra roba e andare a zappare! Se vi riesce di aprire la porta ovviamente.” e rise. “Maledizione” pensai. Ho sempre odiato i capi con la risposta pronta.

C’era silenzio finalmente. Pochi clienti seduti che aspettavano. Un bambino che leccava un ghiacciolo all’arancia seduto sulle ginocchia di quella che doveva essere la sua mamma. Una mamma qualsiasi. Lui però non la smetteva di fissarmi. Faceva un rumore pazzesco succhiando il ghiacciolo. Lo guardavo e smetteva. Riprendevo a lavorare e ricominciava. Così vi, continuamente. Lo faceva apposta.
Nel frattempo il computer si riavviava. Era questo il fatto. Lo accendevo e dopo qualche minuto reset. Da solo, senza neanche il bisogno di muovere il mouse. Si riavviava il maledetto. Avevo già sostituito tre banchi di ram, ma inutilmente. Erano due ore e mezza che ci lavoravo su. Tutta la mattinata in pratica. Ciononostante non riuscivo a capire cosa mi infastidisse tanto. Non era il caldo o la bionda in stile Baywatch no, né quell’odioso bambino che succhiava il ghiacciolo. “Forse tutte queste cose assieme” pensai, quando mi cadde l’occhio nuovamente sul tipo di prima e capì. Portava una maglietta a maniche corte blu con l’avviso dell’errore di sistema di Windows stampato sul petto. Bassa ironia da Geek. Praticamente sfotteva.
Così sembrava almeno. Improvvisamente però il tipo mi sorrise. Probabilmente aveva inteso ancora una volta cosa stessi pensando o non so. Si alzò molto lentamente e si avvicinò al bancone. Estrasse una pistola dalla tasca e me la puntò dritta contro il viso. Sentì il “click” del caricatore.
I pinguini facevano surf sotto le mie ascelle.

Vedevo i pinguini. La pinguina bionda con le tette al vento seduta mentre emetteva gridolini isterici ed acuti quasi in iperventilazione. Il pinguino piccolo che piangeva in braccio alla pinguina mamma. Il ghiacciolo per terra in una pozza arancione. Mamma pinguina che si stringeva il piccolo al petto e “Ssh!” faceva, “ssh!”. Il tipo con la maglietta blu di Windows ancora davanti a me con il braccio teso. “Dammi tutto quello che c’è in cassa!” diceva “E silenzio voi!”
Will Carrier pinguino disegnava sulla condensa lo schema della pompa di calore. “Aiutami Will!” E faceva ciao, faceva. Ciao, ciao con l’ala.

Dovevo fare qualcosa. La cassa era direttamente collegata al computer. Niente computer niente cassa, perciò dissi “Mi dispiace amico, ma il computer non funziona. Niente cassa”. “Come niente cassa?” Rispose e sembrò incazzarsi parecchio. Bravo Belafonte ...
 “Tu forse non hai capito che se non apri subito quella maledetta cassa io ti faccio saltare le cervella. Ti ammazzo! Lo hai capito che ti ammazzo?”
Il concetto era già chiaro la prima volta. Non restava che tentare la fortuna. Che in quel momento molto probabilmente si trovava in qualche spiaggia di Maracaibo con gli occhiali da sole e un cocktail in mano, ma non è che me ne importasse molto. Avviai il computer. Logo di Windows. Schermata di caricamento. Desktop. Dita incrociate. Spento.
“Perché l’hai spento?” disse “Non l’ho spento, amico. Te l’ho detto che non funziona. E’ da stamattina che non la smette di riavviarsi”.

Era sudatissimo. Spruzzava letteralmente sudore da tutti i pori. Sembrava una schifosa spugna con braccia, gambe e occhi di fuori. Era grasso, squadrato in viso e senza collo. Più brutto di Spongebob ed armato. Si passò una mano sulla fronte come se stesse cercando di calmarsi, ma non era calmo. Si fece rosso in viso. Sempre più rosso e meno calmo. “Dai che gli prende un collasso” pensai e mi ripromisi di cercare su Google il nome dell’inventore delle serre per ringraziarlo.
Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e si asciugò il viso. Disse “Tu vuoi proprio che io ti ammazzi.” e rivolgendosi ai clienti “Lo avete sentito no? Lui vuole che io lo ammazzi.” Poi di nuovo a me “Senti a-m-i-c-o. Io odio. Odio proprio la gente che mi chiama amico. Solo per questo motivo ti trovo già tremendamente antipatico. La vedi questa? Questa è una 6mm semiautomatica. Sai cos’è una 6mm semiautomatica? No? Beh, te lo dico io cos’è una fottutissima 6mm semiautomatica. Una semiautomatica è una cosa che è in grado di spappolarti il cranio in meno di un secondo e rinfrescare la vernice di questa schifosissima stanza con le tue cervella! Ecco cos’è una 6mm semiautomatica! Blam!” disse sputando e tirò su col naso. “Te lo spiego con calma per l’ultima volta. Se non apri subito quella dannata cassa e mi consegni tutti i dannati soldi che ci sono dentro io ti faccio un buco in testa” E così dicendo mi toccò la fronte  “Capito? Così prendi aria!” Dannazione Bob!

“La situazione non è certo delle migliori” ed io mi sentivo cretino anche solo a pensarla una frase come questa “Nonostante tutto non può andare peggio di così”. Che idiota!
“Calma, calma. Ci voleva assoluta calma e concentrazione. Pensa Belafonte. Pensa in fretta.” Ma non ce la facevo. Era la fine. Quel tipo mi avrebbe sparato ed io sarei morto senza avere avuto il tempo di dire al mio nuovo amico Haviland che in fondo lo stimavo molto. “Will tu sei già morto ora che ci penso. Verrò a trovarti su una nuvola in paradiso. Oppure all’inferno. Ovunque tu sia insomma. Guarderemo Il Milionario per tutta la notte e berremo un sacco di birra. E se fa caldo chi se ne frega, tanto dove ci sei tu fa sempre fresco Will. Ce l’hai la birra fresca vero?”

Stavo delirando. Sbuffai e crollai il capo chiudendo gli occhi. Sentì la canna della pistola che si posava sulla mia nuca sempre più pesante. “Perché diavolo non arriva nessuno?!” pensai.
“Calma. Stai calmo. Fai qualcosa, ma stai calmo” Quando riaprì gli occhi ebbi una folgorazione. “Eureka!” E il sangue tornò a fare visita al cervello. Dal piccolo buco della presa Usb sul fronte del PC faceva capolino un cavetto. Mi venne subito in mente che magari computer da ufficio vecchi come quello potessero essere stati assemblati molto in fretta con pezzi rimediati qua e là. I contatti erano logori, col tempo si sarebbero potuti bruciare. In questo caso lasciare qualcosa attaccata alla presa avrebbe potuto mandare in massa il computer, nel migliore dei casi farlo riavviare. Doveva essere così.
“Hai vinto” dissi “Hai vinto amic… Hai vinto! Ti apro subito la cassa”. Mi chinai per tirare via il cavetto (uno stupido iPod in carica) e spinsi start.
Bip!(?) Non aveva mai fatto bip. Poi di nuovo logo di Windows. Schermata di caricamento. Desktop. Dita incrociate. Anche quelle dei piedi. Schermata nera. Schermata nera. Schermata ner… Inserire password. Bingo! Dio come ti amo!.

Una cosa l’avevo capita: se la fortuna fa l’errore di tenderti un dito, tu devi tirarle forte tutta la mano e strappargliela se è il caso. Io in quel momento potevo sentirle pure l’alito. Sapeva di  menta e rum annacquato di terza mano.
Il tipo con la pistola in mano allentò la pressione “Bravo” disse “ adesso iniziamo a ragionare. Tira fuori i soldi” e con l’altra mano mi diede una pacca sulla spalla. Era il mio momento.
“Ti prego Will se non dovessi farcela dì a mia madre che sono morto da eroe. Dille che ho avuto il sangue freddissimo e tu non c’entravi nulla in tutto questo. Tu non c’eri nemmeno Will. Che amico che sei! Spero che verrai al funerale almeno. Ci conto!”
Avevo ancora in mano il cavo Usb dell’Ipod. Diedi una frustata violentissima all’indietro senza guardare e colpì il tipo sulla fronte. La botta gli aprì un taglio abbastanza profondo da farlo sanguinare. Urlò accecato. Si lanciò per dietro ed io cercai di afferrargli la pistola. Presi il suo braccio con entrambe le mani. Si divincolava. Aveva una forza pazzesca. Era tutto rosso e sporco di sangue. La bionda si mise ad urlare. La mamma si mise ad urlare. Il bambino non faceva che piangere e urlare anche lui “Porca zozza” pensai “perché non mi danno una mano?” “Non ce la faccio!” Urlai.

La bionda era sempre più agitata. Il tipo mi diede una spallata e caddi con la schiena sopra il bancone. Sparò. Un piccolo proiettile attraversò la stanza. Lo vidi passare sopra il mio naso come al rallentatore. Tirò dritto verso la porta. Superò la bionda. Schivò la mamma roteando e finì dritto contro il petto del bambino che improvvisamente tacque.
Il bimbo allungò la mano verso la ferita sporcandosi le dita. Se le guardò e riprese a piangere. La mamma sgranò talmente tanto gli occhi che per poco non gli schizzarono fuori dalle orbite. Afferrò la mano del bambino e si mise ad urlare fortissimo. Accarezzò la testa del figlio e la dipinse di rosso stringendosela al petto come un pallone. “Santo cielo!” diceva “Santo cielo!” mentre il bambino come in trance aveva smesso di piangere fissando la bocca della madre che quasi lo soffocava tra le braccia.
La bionda assistette a tutta la scena. Guardò il tizio con la maglietta blu che era rimasto con il braccio ancora teso e la pistola in mano. “Tu!” esclamò “Lurido porco! Ti rendi conto di quello che hai fatto!?” Quasi preoccupato il tipo non disse nulla. “Chiavami!” aggiunse quella. “Adesso. Chiavami. Qui!” Lui sorrise e lei si avvicinò. Iniziarono a toccarsi e a baciarsi dandoci dentro come animali sudati. Il tipo lasciò cadere la pistola. Io non credevo ai miei occhi. Erano proprio degli animali avvinghiati.

“Chiavami! Chiavami, porco!” Continuava lei con la maglietta ormai completamente rivoltata e i capezzoli di fuori. Mentre il tipo le lanciava ampie leccate gonfie di saliva e sangue su tutta la faccia. Io saltai su e mi avvicinai alla madre. Le dissi: “Signora, dobbiamo andare via di qui. Questi sono completamente matti. Suo figlio ha bisogno di cure signora, presto!”
Allungai la mano verso la ferita del bambino. Non sanguinava. Il tessuto della maglietta non sembrava nemmeno lacero. Intinsi il pollice in tutto quel rosso e annusai. Vernice. “Signora non è sangue. E’ vernice signora. La prego si calmi senta!” E così dicendo le infilai due dita sotto al naso. Lei tirò su un paio di volte e dopo qualche secondo si riebbe. Gli occhi le si illuminarono improvvisamente.

Non saprei spiegare come, né credo valga la pena intendersi più di tanto su cose come questa. Ciò che ritengo importante  è che forse chiunque in quella stessa situazione avrebbe reagito così.
La signora si alzò molto lentamente. Scostò il figlio di lato. Lo fece accomodare. Lo baciò. Si ravvivò i capelli e si avvicinò ai due che amoreggiavano. Li divise. Rivolgendosi alla bionda disse secca “Troia!” e le diede una testata in pieno viso scaraventandola contro il muro. Poi affondò le unghie nel collo di lui e con un balzo rapido gli strappò via un pezzo di orecchio con i denti. Lo sputò e si lanciò verso quello che restava. Caddero tutti e due per terra. La bionda li raggiunse tenendosi il naso che sanguinava. Urlavano. Si rotolavano. Volavano insulti e botte. Si sentì uno scoppio molto forte, forse una tetta. Il bimbo saltò dalla sedia e si impossessò della pistola. Iniziò a sparare ovunque ritinteggiando la stanza. La vernice si confuse molto rapidamente col sangue. Tutto accadde molto rapidamente. Non riuscivo più a distinguere nessuno. Stava accadendo tutto davvero molto rapidamente, ma in fondo mi interessava solo di andarmene da lì.

Non provai nemmeno a dividerli, il mio lavoro l’avevo fatto. Corsi fuori per strada e raggiunsi l’altra parte del negozio che si trovava esattamente una cinquantina di metri più sotto. Entrai dritto nell’ufficio del capo. Come sempre si stava molto freschi. “Io ho finito” dissi “ Stacco. Vado a casa e mi prendo il resto della giornata capo.” “Pollice verde?” fece lui “No, rosso” risposi mostrandogli il dito. Sgranò gli occhi. “C’è un gran casino lassù” “Problemi?” “Normale amministrazione”. Uscì e chiusi la porta. Poi la riaprì e aggiunsi “Dimenticavo di dirti che ti voglio bene capo. Davvero, tanto bene.” “Sei uno stronzo Belafonte. Proprio un gran figlio di…” e richiusi.

Quella sera davanti alla tv mi ripromisi che il giorno dopo avrei aggiustato il condizionatore di quella serra. Lo avrei fatto, oppure sarei morto lì.

(bob)

giovedì 20 gennaio 2011

L'azienda non ti tradirà mai (rapsodie e fatture blu scuro).


Questo pomeriggio arrivo quattro minuti prima del solito.

Il ragionier Bartolini stavolta mette la macchina nove metri più sotto di me. Una sana camminata non gli fa affatto male, giusto per smaltire il quattordicesimo panettone comprato al Carrefour, che di sti tempi dopo Natale te li tirano dietro manco fossero le arance al Carnevale di Ivrea. Scendo dalla macchina, mi giro, tiro un sospiro, e non passano nemmeno due secondi che do' un'occhiata all'Etna, ogni giorno di un colore maledettamente e meravigliosamente diverso.

Oggi è blu.

Robert Johnson è appena sotto la collina. Ha la chitarra in mano e continua a cantare "Crossroads", e di quando una volta aspettò così tanto inginocchiato al crocicchio della strada, che il Diavolo in persona lo convinse a stringere un patto con lui.
Poco davanti a me, scorgo chiaramente la figura di Charlie la rana... Ha un golf verde, le mani in tasca, cammina con la testa bassa rivolta perennemente al cellulare. Si dice che una volta l'abbiano visto senza, e che si sia messo a parlare normalmente, riuscendo a muovere anche il labbro superiore.
Per fortuna, quando lo incrocio, bofonchia qualcosa con la solita parlata : labbra bloccate che nemmeno l'antifurto con le palle, e il minuto di ipnosi non me lo toglie nessuno. Stessa ipnosi che mi fa venire in mente "rapsodia in blu" di Gershwin, ottima per fuggire dal terzo richiamo all'ordine e alla diciannovesima spiegazione riguardo lo storno fatture. Il tema principale di "Fantasia" mi rimbomba a cannone in testa quando do' un'occhiata distratta alle file davanti.
I rosafanti ci sono per davvero. Accanto a quello che si sta strafogando con i tappi delle penne Bic, c'è quello che ti propina frasi copia-incollate da quelle dei baci Perugina, o da qualche link di Facebook, non cambia di una virgola.

Il terzo chakra, quello del plesso solare, dell'ombelico, della milza, del fegato, mi suggerisce che è arrivato il momento di mangiare. In questo periodo sembra essere quello meglio funzionante, visto che gli altri sono relegati sotto i piedi, a fare compagnia al primo, il più becero e cinico di tutti. I bookmakers quotano quattro a uno la possibilità che il quarto, il quinto e il sesto si possano risvegliare in questi mesi. Il settimo ora come ora lasciamo stare che non è cosa, altrimenti la produttività cala e la casa degli Usher potrebbe crollare da un momento all'altro, come diceva il caro Edgar All'unpop.
Qua non piovono rane, solo acqua. La manna dal cielo per molti è il posto fisso dal quale aspettare che l'inverno, dormendogli addosso, non gli spezzi il collo in due, come la cavalletta senza testa che ci ricordava di piaghe evangeliche, pane e sale.

Domani passo a prenderti, così mi racconti di quella storia bellissima, quella sulla memoria a breve termine dei pesci, quella che ora non riesco a ricordarmi.



(Michelangelo)