domenica 25 marzo 2012

Milady

Subito si arrestò senza potere fare nulla. Fu l’unico tentativo di trattenerlo con le proprie forze, dopo di che lo seguì a testa bassa. Per quanto potessero essere fumosi i pensieri che affollavano in quel momento la sua mente, comprendeva in maniera lampante che sarebbe andato anche da solo e che quindi non restava altro da fare. Poteva percepire la sua determinazione pur tenendosi dietro a due passi di distanza. Per tutto il tempo non aprì bocca, ma la strada gli era nota, per questo non fu difficile seguirlo mentre, per vie traverse, cercava percorsi poco frequentati. La meta in fondo era quella.
        Giunto in prossimità della casa, un grande e logoro complesso di legno della fine degli anni ’80, vide uscire un’infermiera col cappotto assieme ad una donna anziana insolitamente più alta. Scesero tutte e due lungo lo scivolo dinnanzi alle due grandi porte dell’androne conversando sommessamente e dividendosi l’un l’altra una sigaretta. Non rivolsero neppure un’occhiata al sopraggiunto, ma salirono subito in macchina. Perciò non poterono notare neppure Rupert che scivolava nel buio dietro il paraurti del veicolo. Una pioggia sottile aveva iniziato a cadere proprio in quel momento su tutta la strada.
            Appena la macchina si fu allontanata abbastanza Monica, che aveva osservato tutta la scena, venne fuori per fare entrare Giovanni e il cane chiudendosi la porta dietro le spalle.
- Dentro l’Hospice non c’è più nessuno eccetto noi tre – commentò quasi tra sé fissando Rupert che si scrollava il pelo.
 Al piano di sopra attendeva Natalia, già pronta per la notte con un pigiama leggero da uomo. Fece come per alzarsi e venire loro incontro quando li vide entrare, ma sorrise di sé e poi a Rupert che aveva appoggiato il muso sul suo cuscino e la guardava fisso.
Gli occhi di lei si posarono su Giovanni che era rimasto dietro e si fecero fermi e seri. Lui sedette discosto sul divano nell’altro angolo della stanza. Monica restò in piedi accanto al letto rifiutandosi di sedere. Rupert si mise a guardarla perplesso quasi con afflizione, ma Monica che era quel tipo di ragazza che sembra sorridere anche quando sta seria lo rincuorò e lui si lasciò andare a terra. Si fece così un altro po’ di silenzio.
Una nota di terrore scivolò sul volto di Natalia, i suoi occhi si dilatarono e le pupille si fecero sottili. Non riusciva a schiodare lo sguardo dal figlio, il quale  non sembrava affatto intimidito. Entrando Giovanni aveva rivolto appena un’occhiata alla stanza ed un senso di sconforto gli era passato rapido sul viso così come se n’era andato. L’ombra della flebile luce che filtrava dalla porta si sposava bene con l’espressione di lui che adesso si era fatta pensierosa. Ogni tanto si rassettava la giacca ed incrociò addirittura due volte entrambe le gambe che gli davano noia a causa di un problema alla schiena. Non si accorse nemmeno di essersi sporcato i risvolti dei pantaloni prima di entrare. Infine sollevò gli occhi verso la madre e capì subito tutto ciò che le bolliva in mente. Il sangue scosse il sangue e Giovanni ruppe il silenzio.
- Avrai certo capito il perché di tutto questo – disse con aria finale assai lentamente e fermandosi su ogni parola come se le distribuisse per bene nella stanza.
- Io non capisco – rispose Natalia in modo reciso.
Giovanni si ammutolì. Al suono della voce di lei qualcosa gli passò dentro e all’improvviso gli sembrò strano trovarsi in quella situazione. Notò che il volto della madre si era fatto più duro, le rughe profonde e cavernose come quelle di un muro, le labbra sottili. La voce sembrava le resuscitasse da dentro lo stomaco o da un posto molto più in là di lei. Non la vedeva da mesi. Arrossì per questo.
- Fingi di non sapere mamma – disse con decisione, ma con un filo di voce, sebbene sapesse che c’erano solo loro nell’edificio.
- Perché dovrei? – domandò la donna cercando di sorridere, ma un fremito di tosse la interruppe.
            - Ne approfitti – rispose Giovanni tentando di riassumere il controllo della conversazione.
            - Non mi è consentito alzarmi.
Giovanni sollevò la testa di scatto. Si voltò verso la sorella e poi di nuovo verso la madre. Qualcosa in tutta la conversazione, ma soprattutto nel modo di pronunciare quest’ultima frase, gli insinuava l’idea che si prendessero gioco di lui, che gli si rinfacciasse qualcosa – Calmatevi entrambe – disse – non ho bisogno di motivi per bisticciare.
            - Sei venuto per litigare dunque – disse Monica sentendosi chiamata in causa – non hai rispetto.
          Natalia zittì la figlia tendendole la mano. Questa gliela strinse forte pentendosi di aver pronunciato quelle parole, ma ormai i due fratelli si guardavano l’un l’altro con livore. La quiete di prima si era dissolta. Come se si fossero risvegliati da un lungo sonno tutti e tre percepivano adesso la concretezza della situazione. Le due donne disprezzavano l’uomo che sedeva loro di fronte e parimenti egli sentiva il bisogno di comunicare lo stesso velenoso sentimento che gli scuoteva l’anima. A tal punto si era capovolta la situazione e l’aria si era fatta in così poco tempo elettrica che Monica, stupendosi di se stessa, si ripromise di tacere per non compromettere tutto parlando lei per prima delle e-mail. Ella sapeva bene che la madre avrebbe voluto che fosse il fratello a tirare fuori l’argomento e non lei.
           Monica lasciò la mano della madre e tese un fazzoletto a Giovanni.
           - Pulisciti – disse, facendo un cenno verso i pantaloni.
       - Ricominciamo – iniziò Giovanni asciugandosi i risvolti con calma – non ho la minima intenzione di mettermi a litigare qui con voi dicevo. Sono venuto a tendervi una mano. Voglio rispondervi di persona, mi sembra il minimo dopo quello che è stato detto e scritto. Della vostra decisione non sono contento, anzi mi sento offeso. Più di tutto però sento pietà per te mamma, che sei una persona troppo orgogliosa e nemmeno di fronte ad un’esplicita richiesta di tuo figlio vuoi dimostrare un po’ di scrupolo. Ecco ti parlo direttamente come si dovrebbe fare sempre e specialmente in questi casi. Così facendo dimostri più amore per te stessa di quanto dici di volerne a me e anche a Monica, sebbene ti sostenga in questa assurda idea. La vanità è sempre stata il tuo punto debole e anzi credo che se ti fosse capitata un’occasione meno importante di questa saresti stata infelice.
        Giovanni aveva provato più volte nella sua testa quel discorso e ne pronunciava ora non le esatte parole, ma solo quelle che riusciva ad articolare nel tentativo di non farsi prendere dalle emozioni. Sentiva ogni sillaba che usciva dalla bocca vibrare di una nota di rancore di cui temeva l’improvviso ritorno di fiamma. Per questo motivo fu molto contento della misura e del tono usati, i quali, però, proprio per questa compiacenza che non riusciva a non fare affiorare sul viso producevano un effetto del tutto contrario sulle due donne.
           - Monica mi ha scritto quella prima e-mail. So che è stata lei, perché le parole usate me ne hanno dato conferma. E sono le stesse che usa ora. “Rispetto”. Che cosa vuoi che ne sappia del rispetto una che parla per conto altrui. Magari l’idea di Rupert è tua mamma, è esattamente il tipo di idee stucchevoli che partono dalla tua testa, però tutto il resto no. – aggiunse infine in modo grave parlando come se la sorella non fosse presente.
           - Anche il tuo rispetto è stucchevole – rispose Natalia con quell’amara ironia tutta femminile di cui ogni tanto anche lei era capace.
            - Pensa quello che vuoi. Quando le chiesi chiarimenti lei mi disse che è tanto che ti tormenti, che soffri, che parli con i medici. Lei è in pena per te, dice di non riuscire a dormire la notte, che vederti come sei le fa piangere il cuore. So che non esiste persona più semplice d’animo di lei e per questo so che si inganna. Il cuore le parla una lingua più chiara della ragione e tu lo sai. Lo sai e ne approfitti.
            La pioggia si era fatta forte e nella stanza era sceso un silenzio ancora più profondo di prima. Gianni fu zittito dal suono delle sue stesse parole e si incupì al pensiero di come avesse potuto esprimersi in quel modo, liberamente, mostrando tanta indifferenza per l’effetto che avrebbero potuto produrre nella mente di sua madre.
             - Questo è quanto – aggiunse infine.
          - E allora perché ne parli con me? – rispose Natalia sempre con quella sua voce secca che ormai aveva ben poco di umano.
            Gianni si fece paonazzo.
            - E’ mio diritto sapere cosa ti passa per la mente. E’ mio diritto esprimere un’opinione sulla faccenda, capire quanto anche lei sia impazzita e dire ad entrambe che di Rupert io non me ne faccio niente, che mi è di peso, che se lo amate tanto potete pure tenerlo per voi. Soprattutto è mio diritto di figlio, finché sarò figlio tuo, oppormi con tutte le forze contro questa decisione. Che baratto è mai questo?
           - Che baratto? Rupert è il tuo cane. Io gli voglio bene, ma non mi sembra il momento di discutere di lui. – rispose con un filo di voce Natalia.
          - Io non voglio discutere del cane! – Urlò finalmente Gianni con tutto il fiato che aveva in corpo. – Quelle e-mail! Falla finita se hai deciso così, perché quelle e-mail? Credi che sia così matto da denunciare mia sorella? Questo ho pensato. Mi compromette con la scusa del cane. Il cane è già mio, ma che prove ne ho? Perciò se volessi denunciarla dovrei stare attento al cane. Però, no, il cane non c’entra niente, non è questo. Tu vuoi darmi il tormento. Vuoi che assista, vuoi sentirmi urlare, vuoi l’atto eroico. Vuoi farmi vedere come muori sola. Perché non fate quello che dovete fare tu e lei ora che l’hai convinta che sia la cosa più giusta? Perché ci metti in mezzo il dannato cane? Perché non vuoi avere sulla coscienza questo peccato, perché mi vuoi complice, partecipe di tutto. Ecco perché. Sei troppo istruita, certe idee ti hanno dato alla testa. Lo dici di me, ma non so, io credo che tu sia davvero posseduta come si dice in giro. Lo sai, no? Si dice che tu non sia malata, che tu non abbia il cancro. Il cancro capisci, hai il cancro! No, dicono che tu sia posseduta, la gente dice questo, che l’Hospice lo chiudono perché tu l’hai maledetto e nessuno ci vuole più morire dentro…
         - E tu non sei posseduto che parli così davanti a tuo padre? – disse Natalia facendo un cenno verso Rupert con quella sua voce sempre più stridula e tronca.
Tutto era andato all’eccesso fin troppo velocemente. Gianni infine si era fatto prendere dall’emozione e adesso tutte quelle parole restavano appese in aria come stalattiti nello stesso modo in cui erano affiorate col tempo nella sua mente. Egli non sapeva a cosa credere ormai, se a tutte quelle storie sugli acidi, sui romanzi che le avevano dato alla testa o sulla possessione demoniaca addirittura. Sciocchezze. Pazza, così l’aveva chiamata tanti anni prima la zia e adesso, così inaspettatamente, la soluzione si presentava dinnanzi a lui. In realtà, però, molto al di sotto di tutto questo c’era in quella donna sprezzante e orgogliosa una creatura più tenera e pudica di quanto egli avrebbe potuto immaginare. E c’era anche tutto quello che era stato detto e che non le era mai riuscito di raccontare come si deve ad almeno uno dei suoi figli.
- Cosa hai detto del cane?
- Non ho parlato – rispose con meraviglia Natalia guardandosi attorno come se ci fosse qualcun altro dietro di lei.
- A chi guardi? Chi c’è qui? Ci sono io? Mi vedi? Stai prendendo le pillole mamma? Gliele date le sue medicine? – aggiunse infine rivolgendosi alla sorella.
- Che ne sai tu di quello che succede qua dentro? – disse finalmente Natalia come presa da un sussulto – Che ne sai tu che cosa vedo io?.
- So che se non prendi le tue medicine mamma ti metti a parlare con i muri. Dici cose, strane. Parli di statue che passano per la stanza che nascondono le anime delle persone o non so cosa. Tu non sei in grado di intendere e di volere mamma.
- Finiscila, pazzo! – esplose Natalia con voce cristallina come se si fosse sforzata di vincere il dolore che le opprimeva il petto – Tu, non capisci. Tu mi vuoi morta!
- Io ti voglio viva, voglio che ti rimetta e che non parli più col cane.
- Che ti ha detto?
- Il cane non parla! – disse infine Gianni disperato.
Sempre seduto si passò le mani sul viso che si era fatto ora molto pallido. Si alzò come per andarsene, ma Monica lo arrestò.
            - Guardati – gli disse furente – guardala! Non vedi che sta male? Ti senti normale tu? Come puoi dire queste cose in faccia ad una persona che sta morendo. E’ tua madre santo paradiso! Ti senti di essere solo tu quello normale in famiglia? Ti sembra normale essere costretti a morire in quelle condizioni? Sì, la mamma me l’ha chiesto quando era ancora lucida, ma poi tutto il resto l’ho fatto io. Sono io che voglio che muoia, perché soffre, perché lei vorrebbe uccidersi, ma non può farlo. Non ce l’hai un cuore Giovanni!
          - Un cuore, tu? – chiese Gianni credendo di impazzire per lo stupore, perché lei, che era la più piccola, aveva fatto tutto questo e soprattutto gli parlava adesso con quel tono.
           - Anche io. L’hai detto tu prima del resto. Ed io credo che anche tu abbia un cuore. Tutte quelle cose che dici, la vanità. Anche tu sei vanitoso Gianni, lo vedi che sei vanitoso? Sei qui, no? Potevi restare dove sei stato, ma sei venuto qui. Potrei dirti che anche tu lo fai per cinismo, per vanagloria, per orgoglio. E invece no, me ne sto qui a guardarti infierire su quella povera malata che è nostra madre senza nessuno scrupolo per lei. Sì, scrupolo, sono parole tue, Gianni. Tue e soltanto tue. E adesso te la prendi con me perché sei soltanto geloso…
          E così dicendo iniziò a percuoterlo sul viso e scoppiò in lacrime. Gianni la bloccò stringendosela al petto. Anche in quel frangente si stupì di sé, poteva sentirla pigolare come un pulcino tra le sue braccia e allo stesso modo gli sarebbe bastato un po’ di quel rancore che poco prima sentiva crescere forte per farla soffocare del tutto, ma non lo fece. Respirava profondamente e deglutiva. Tutto questo gli costava uno sforzo enorme, però sentiva che faceva bene a tenersela vicino, ancora un poco.
            - Mi ha detto che mi odia – disse dopo un po’ Monica ricomponendosi – Che sono io che l’ho fatta ammalare e che non ti faccio venire. Anzi che quando sei qui ti dico di andare via perché tanto è già morta. Allora io le do le pillole. E’ possibile che sia per questo, penso, ma quando torna in sé mi maledice ancora di più, dice che la faccio soffrire invano. Urla, bestemmia, mi ordina di ammazzarla, di non darle più le medicine. La morfina vuole, ma la morfina non le fa più effetto.
           - Può essere – iniziò Natalia con una voce che si faceva appena percettibile, tanto che i due credettero che avesse già iniziato a parlare da prima – che io non sia la persona migliore di questo mondo. Soprattutto non sono degna di voi. Ciononostante io sono pronta a perdonarvi, perché so come siete fatti. Cosa vi passa per la mente. Anche se ammetto che vi stimavo più capaci. Prendetevi il vostro cane, lasciatemi sola. Vi prego. Prendetevelo, ecco, ma andatevene via. Subito, ora!
           Tutto questo lo disse sollevandosi pian piano sul letto, tanto che Monica le era venuta in contro per farla stendere di nuovo. Quando fu abbastanza vicina, però, la madre scoppiò a riderle in faccia lascianodsi cadere sul cuscino contorcendosi come in preda alle convulsioni.
           - Adesso io vi ordino di andare via, con il potere conferitomi dallo Zar Nicola vi dichiaro marito e moglie. Vi faccio fucilare! Prendetevi Rasputin, lo volete? Basta che glielo ordini e lui vi verrà dietro. Vai Rasputin! – e così dicendo si rivolse verso Rupert che si era messo ad abbaiare. La pioggia si era fatta sempre più insistente e fitte. In quel preciso momento esplose forte un tuono.
            Giovanni terrorizzato si slanciò verso la sorella e la trasse via da lì. Fece nuovamente per andarsene, ma si fermò come impietrito e stette ad ascoltare. Natalia si era calmata e ora giaceva in silenzio mezza riversa a faccia in giù sulla sponda del letto. Con la mano si era messa ad accarezzare Rupert che guaiva anche lui terrorizzato
– Buono - gli diceva - stai buono. Non è nulla. Vuoi che scacci le statue? Tu credevi che per farti piacere mi sarei fatta ammazzare, che non mi sarei fatta prendere come hanno fatto loro con te. Ebbene ora sono qui, le sento arrivare, gli urlerò di andare via. Dirò loro “Vi ricordate quello che mi avete promesso?” Oh, come ho fatto a finire così, Rupert? Perché? Non mi avevi detto che non mi avresti lasciata mai? Loro mi trattano come una demente. Domanda loro se sono demente, ti diranno di sì. Dopo che mi hanno svergognata dinnanzi allo Zar. In te solo ho avuto fede e te ne sei andato. Io ti maledico dunque, vai via Rasputin!
Così diceva come in preda ad un attacco talmente forte che i due che la stavano a sentire temettero di vederla morire da un momento all’altro. Le parole le uscivano a fatica, la bocca sembrava un buco che qualcuno avesse fatto col dito nel terreno e i seni ormai flosci e pendenti le erano arrivati fin dietro la schiena. Sembrava che anche lei non credesse minimamente a quello che diceva, come se entrasse e uscisse improvvisamente da un sogno.
- Ecco, guardala! – disse Monica al fratello – e’ così tutte le sere. Non si può andare avanti, io non posso andare avanti così. Per te è facile arrivare qui e dire no. E’ facile dirlo, ma io so che lei non vorrebbe vedersi così, non vorrebbe vedere noi subire tutto questo.
Giovanni rimase immobile come in attesa. Guardava sua madre e Monica che si era gettata sul divano e piangeva di nuovo. Scorgeva adesso soltanto desolazione e follia. Rupert aveva smesso di abbaiare e intontito andava in cerca del padrone. Si avvicinò a lui. Gianni lo guardò fisso e Rupert guaì una nota così bassa che sembrava quasi una preghiera. In vita sua non si era mai sentito così infelice come in quel momento.
Tutt’a un tratto il cane corse via ammutolito. Lo sguardo di Giovanni esprimeva odio e sofferenza. I suoi occhi si incrociarono con quelli della sorella che ora lo guardava con le mani giunte sul petto. Ella capì subito.  Un piccolo lampo bianco saltò fuori dalla tasca di Giovanni che si era lanciato verso la madre.
          - Le statue! – gridò lei con il poco fiato che le era rimasto e svenne. Gianni le piombò con tutto il corpo di sopra, ma la lama non trovò la carne. Monica era riuscita da ultimo a trattenere il fratello quel tanto che bastava per fargli mancare il colpo. Egli si ricompose rapidamente e scappò via, seguito dalla sorella che gli era corsa dietro per aprire le porte dell’ingresso che aveva chiuso a chiave.
            Rupert sollevò Natalia con le braccia, la portò nell’altra stanza adagiandola su una poltrona. La guardava ammirato, quasi stupefatto e lei svegliandosi lo vide sorridente davanti a lei e ricambiò il sorriso. Sopra ad un tavolo c’era un bicchiere,  lo prese e ne bevve il contenuto senza guardare. Per circa un minuto non le riuscì di capire nulla. Infine ebbe un sussulto e si gettò tra le braccia di Rupert
            - Mio! Sei l’amore mio – disse al sommo della gioia.
Monica ritornata nella stanza la stette a guardare per un poco mentre Rupert le leccava il viso e la faceva ridere. Non disse nulla, si avvicinò lentamente, lo prese per il collare e lo portò fuori.
            - No – diceva Natalia – no!
Monica si sedette sul bordo del letto. Le prese la testa tra le mani e iniziò ad accarezzarla passandole le dita sulla nuca, consolandola e asciugandole le lacrime come una bambina dopo una caduta. Mentre faceva questo piangeva di nascosto anche lei tirando su col naso. Si chinò per baciarle la fronte e le sussurrò all’orecchio che presto, molto presto, Giovanni l’avrebbe portarla via da lì.

(bob)

martedì 6 marzo 2012

da un congedo

Ascoltami, la ruota ha compiuto il suo giro,
la volta a ‘n’ del cielo, il bucato appeso,
ricordo il guanciale del tuo collo imbevuto;

così mi sono sorpreso spaurito come
un vecchio di prima mattina. Ascolta
per il tempo di un’aspirina o il dolore di un

ago, per questo mi sono addormentato
in silenzio assuefatto a corridoi di diossina
che ci avvelenano. Il tuo sguardo fiammeggia

in segreto e sento due labbra lungo la nuca
che mi urlano di andare, correre, non fermarsi,
verso la direzione, l’alba grande, il punto.

Così mi stacco da terra e sembra un’ecatombe
di stelle, come tante lampadine viste da
un satellite che scoppiano impreviste

spargendo scintille in aria. Il tuo sguardo
è ancora là fiero e non parla di perdono
e fa mia la colpa del messo senza pena,

mente, motore o altroché sia nume di eterno
fattore. Ascolta di questo strumento che non
suona la gola chiusa, l’urlo di cera delle sirene

che si lega all’albero maestro del cuore. La
ruota ha segnato un altro giro adesso e di là
si festeggia con evidenza di parole l’universo.

(bob)