domenica 14 ottobre 2012

Mamma, altri cinque minuti…















La notte in cui presero il rhum e con quello ci lavarono la macchina.

La notte in cui avremmo bevuto anche il detersivo per non far torto ad alcuno.

La notte in cui ci spostammo da un bar all’altro senza cambiarci i vestiti di dosso.

La notte in cui saremmo passati volentieri a salutarvi per raccontarvi della prossima stazione.

La notte in cui capimmo che le stazioni successive sarebbero state solo un cambio palco, senza nemmeno un roadie che ci aiutasse a mettere a posto i nostri strumenti.

La notte in cui Marco era appena tornato da Londra e non era cambiato di una virgola, forse appena più bruciato. 

La notte in cui nella valigia non c’era posto per la chitarra e allora pensammo: “chi ce la fa fare”.

La stessa notte in cui dopo aver realizzato della chitarra mettemmo al suo posto un altro paio di scarpe più spesse.

La notte in cui andammo a dormire al parco per poi essere svegliati la mattina dagli idranti che sparavano caffè.

La notte in cui finì l’inchiostro per le emoticon e non potemmo più addolcire le frasi ad effetto.

La notte in cui tutti sapevamo che il momento giusto era quello e non altri, ma alle nove c’era la partita e l’abbonamento che l’avevamo fatto a fare.

La notte in cui guidammo a fari spenti nella notte per vedere se era poi così difficile riaccenderli e guardarci dritti negli occhi.

La notte in cui andammo a dormire presto e per sempre non ci fu verso di svegliarci.

mercoledì 27 giugno 2012

Waterlaw


Faceva freddo quella sera. Eravamo tutti da Carmelo. Ad andare in giro non ci pensavi nemmeno, piuttosto bere qualcosa di forte. Carmelo ce ne diede tre dita a testa, a me e a Miche, qualcosa di molto potente diceva. Miche mise mani al borsello, ma non gli fece pagare il primo. Incassò l’offerta, contento, e si guardò intorno. Il locale era pieno di gente che come noi voleva starsene all’asciutto e con le gambe all’aria. Carmelo si fece più vicino per parlare meglio. "Com’è?" gli chiesi. "oh, niente," disse Carmelo. "poca roba." disse. "poca davvero" fece eco Miche senza capire bene cosa intendesse.
Bevemmo qualche sorso di quella brodaglia che scendeva dritta fino allo stomaco bruciando. "E questa pioggia?" domandai a Carmelo. "Poca anche questa"  disse. "Sì" disse Miche "nemmeno gli stronzi si porta via." "Dicono che quelli vengono sempre a galla prima o poi" dissi io. "E quindi?" domandò Carmelo. "Già" dissi io. "Altri due" disse Miche.
Carmelo prese una bottiglia priva di etichetta da sotto il bancone, versò nuovamente quel liquido scuro e fece tintinnare la cassa. “Tre euro” disse. Tornò da noi. "Certo che è freddo. Vorrei tanto avere una barca e non pensarci più." "Dov'è che vai con una barca con questo tempo?” "Lontano da qui.” "Tu non hai paura di morire Melo?" "Non ci ho mai pensato sinceramente." "E di tutta quella gente al camposanto che ne dici?" "Non credo gli importi più di niente al momento."
Ci scolammo i nostri non so cosa pensandoci su. "A me" dissi "mi scappa sempre una gran nausea." In quel momento uscì dal cesso Upupone che aveva sentito tutto. Si afferrò il pacco con un mano muovendo il pollice verso di me "Ma che bel pisellino che hai, puoi farci l’autostop se hai tanta paura" mi disse. "Solo se prima te lo infili in bocca e mi dici dove soffia il vento.” "Non sbagli ragazzo, quelli come te non vanno molto lontano se non hanno qualcuno che glielo ciuccia ogni mattina." "Non ti allargare Upupone, ogni mattina mi verrebbe un colpo a vederti mentre me lo sbatacchi." "Due euro se me lo fai vedere." "Due a centimetro, ma non ti basterebbero." "Fottiti" disse infine e fece un gesto con la mano. Tutti risero "Siediti Upupone” gli dissi “e risparmia un po’ di soldi per questa roba qua."
Si sedette accanto a noi. “Tre” ordinai facendo un cenno con la mano. Carmelo tornò con la bottiglia e la lasciò sul tavolo. "Questo freddo mi dà ai nervi" disse. "Anche il caldo" gli dissi io. "Dici che sono nevrotico?" "Chi non lo è?" "e va bene. Ora ti dico. Lo vedi quel tizio seduto là” disse pulendosi la mano con uno straccio e indicando il fondo della sala senza curarsi di essere visto “ogni sera se ne sta seduto e ordina una pinta, ne beve mezza e aspetta. Solo mezza. Non fa niente e aspetta, pensa o cosa non so. Una sera che mi ero dimenticato di dare la carica all’orologio gli passo davanti e salgo sullo sgabello. Oh, figlio di un cane se ci penso, quello appena tocco le lancette si alza e tira un colpo sul tavolo col pugno chiuso che per poco non mi è preso un infarto. Mi giro e vedo che mi fissa da parte a parte con le narici larghe come un mulo. Finisco di caricare l’orologio e scendo dallo sgabello. «Problemi?» gli faccio. Lui non dice nulla, si scola tutta la birra, paga ed esce. La sera dopo eccolo di nuovo là come se niente fosse. Ti sembra a posto?” “Perché c’è gente col cervello a posto?" gli dissi senza rispondere alla sua domanda. "Poca roba" fece lui “poca roba” disse anche Miche a cui evidentemente quell’espressione era piaciuta parecchio.
“Bisognerebbe fare una conta” disse Upupone. “E perché?" gli chiese Carmelo "per vedere quanti ce ne sono." "Hai ragione" disse Miche. "E’ solo tempo sprecato" aggiunse Melo. "No, aspetta” dissi io “questo rotto in culo non ha tutti i torti. Metti che quelli normali siamo solo noi qua dentro. Quanti siamo? Tre, con Upupone quattro. In tutta la sala saremo più o meno una ventina di persone. Sedici contro quattro. Se uno di loro avesse abbastanza intraprendenza da mettersi al comando. Costituire non so, un fronte contro di noi, e ci facessero la guerra. Metti che vincono Melo. Chi sarebbero i normali? Chi potrebbe dirlo se vincessero loro?"
"Grande giove!" disse Miche. "Ascolta" disse Carmelo "come lo sai che sono normale io? Perché non mi beccano?" "Ecco,  è proprio quello che dico io. E’ molto meglio così. Pensaci, in fondo Napoleone prima di essere Napoleone non era che un matto che credeva di essere Napoleone. Prima lo sapeva solo lui di esserlo, ma dopo che è diventato Napoleone solo un pazzo poteva andargli a dire «no tu sei solo un pazzo». Poi sai che hanno fatto con Napoleone?” “Cosa?” chiese Miche. “L’hanno mandato in esilio come uno qualsiasi. Cioè uno che ha cambiato il mondo. Era alto così e si è fatto il più grande del pianeta. L’hanno ammazzato. Uno che gli ha messo la saliva sul naso a tutti è finito come uno stronzo.” “Che cosa c’entra?” chiese Carmelo con aria confusa. “C’entra che non lo sai se uno di quelli lì è Napoleone. Pensa, oggi se uno si alza e dice «sono Napoleone» lo portano subito al manicomio. Meglio se si sta zitto e li fotte tutti. Ecco questo intendo, che non si sa mai.”
Restammo in silenzio. Upupone fini di bere dal suo bicchiere, Miche contemplava i graffi sul tavolo e Carmelo si era fatto pensieroso. Si sciolse il grembiule e ad un tratto mi disse “Pensi che sarò mai Napoleone io?” come se fosse la cosa più triste di questo mondo “Un giorno ero per strada” aggiunse “che mi facevo i fatti miei. Sai, no, cosa si dice, «inquina meno un corpo che brucia che un uomo che fuma». Ecco, io me ne andavo per i fatti miei un giorno e li ho visti. Erano i primi tempi allora e queste cose dovevano accadere un po’ più spesso che oggi. C’era un tizio, insomma, un vecchio. Portava una sciarpa rossa arrotolata al collo. Una giacca verde piuttosto larga e la camicia. Era uno di quelli che non ce la facevano. Non li vedevi in giro, li portavano in qualche clinica e li tenevano là. Non so cosa gli facessero, ma dovevano farli smettere. Lui se ne andava in giro guardandosi attorno in continuazione. C’era vento. Ricordo che gli scompigliava i capelli. E lui guardava da tutte le parti con quei suoi occhietti. Infine, deve aver pensato che quel tempo veniva a suo favore e nessuno se ne sarebbe mai accorto. Non so cosa può passare per la mente di un vecchio. Magari poteva anche essere uno di quelli che ce l’hanno fatta, non lo so. So solo che ad un certo punto questo vecchio tira fuori un sigaro. Cristo non se ne vedevano di cose così da anni almeno. Era roba costosa. Grosso quanto il pisello di un nero. Lo teneva nella tasca interna della giacca e quasi gli aveva lasciato il segno per quanto era pesante. Lui se lo caccia in bocca e lo accende con uno di quei piccoli accendini a fiamma ossidrica che si usavano una volta. Non fa in tempo a dare due boccate che già lo avevano raggiunto. Due armadi della polizia lo stingevano da entrambi i lati tirandolo per le braccia. Lui ha iniziato a dimenarsi, ma non poteva muoversi. I poliziotti gli intimavano di spegnere quel sigaro. Gli recitavano la formula «flagranza di reato contro la pubblica sanità; rifiuto di obbedire agli ordini della pubblica autorità; aggravante del tentato eco dramma» e tutte quelle cagate che dicono di solito. Il vecchio non voleva cedere, continuava a spippacchiare da quel grosso cazzo col glande infuocato. Quando uno dei due poliziotti tentò di stapparglielo dalla bocca, quello riuscì a liberarsi un braccio e brandendo quella specie di razzo lo ficcò in un occhio all’altro sbirro che ancora lo teneva. Quello cacciò un urlo tremendo. Ancora me lo sento addosso quel grido. Prese il manganello che gli pendeva dalla cintura e iniziò a bastonare a morte il vecchio. Alla cieca. Quando si fermò ricordo che qualcuno tra quelli che si erano fermati per assistere alla scena si era messo ad applaudire. «Bravi! Così si fa!» diceva «Devono smetterla. Ci stanno rovinando.» Io tirai dritto per la mia strada e non dissi niente”.
“Balle” fece Miche “Già, balle” aggiunse Upupone. Io stetti in silenzio. “Ma che balle? L’ho visto vi dico. Oggi fanno tutto più rapidamente, li bruciano. E’ un calcolo molto semplice. Un fumatore medio, dicono, nel corso della sua vita media immette nell’aria lo stesso quantitativo di polveri sottili di un motore a scoppio di quelli della fine degli anni novanta. Un motore che restasse acceso per dieci anni ininterrottamente. Perciò, piuttosto che tentare di farli smettere li bruciano. Non fa un piega. Economicamente è molto più vantaggioso bruciarli che cercare di farli smettere. L’impatto ambientale è nettamente più basso.” “Ma che dici?” insistette Upupone. Miche fischiò. “E’ così ti dico cazzo. Li trovano bruciati. Non li leggi i giornali? Perché li trovano sempre bruciati? Nessuno fuma più, non li si vede mai in giro. Quelli che lo fanno li trovano bruciati. Li bruciano loro vi dico!” ribadì quasi urlando.
“Autocombustione” dissi rompendo il mio silenzio “si cagano talmente tanto di essere scoperti che se fumano lo fanno in luoghi nascosti. Spesso in vecchi magazzini abbandonati e al buio. Non se ne accorgono nemmeno e si ritrovano proprio in mezzo a liquidi o a gas infiammabili. Oppure si fanno cadere direttamente addosso i mozziconi pur di fumarli tutti fino alla fine.”
“Sentite” continuò Carmelo dopo che si era passato la mano sul viso “conosco un tipo che… Il tabacco non esiste più giusto?” “Ecco appunto non esiste più” disse Miche interrompendolo. “No, invece, io conosco un tipo” continuò lui “è lo stesso che mi vende sta roba qua. Un chimico. Si chiama Ueda, è giapponese o non so cosa. Non so come abbia fatto, ma ha inventato un tabacco sintetico. Non di quelli che si masticano, no. Tabacco da fumare. Dice che è roba complicata da spiegare o che ne so io. Insomma, non lo so, ma una sera era qui. Ha bevuto più del solito e alla fine si scopre che non aveva soldi per pagare. Mi pianta una pantomima senza fine, piangendo in cinese o in quella sua lingua strana. Piangeva proprio, era ubriaco forte. Poi mi fa «ti dico un segreto» e mi parla di questa sua invenzione. Dice che è una cosa che non deve sapere nessuno. Segretissima diceva. Una cosa tipo clonazione. Clonazione giusto? Si dice così. Quella cosa che se ti beccano ti fanno la castrazione chimica. Io allora gli dico che se è una cosa tanto grossa, perché la racconta a me. Gli faccio capire che non gli credo. E lui lì a giurare e spergiurare chinando la testa. Questo testone pelato e rosso che andava su e giù. Era orribile. Infine, mi dice «vuoi plovale?» ed io «certo che voglio plovale amico» e lui, venisse giù cristo con tutti i santi, caccia dalla tasca un sacchetto di plastica pieno di tabacco, cartine, filtrini e in tre secondi mi rolla davanti una sigaretta. Questa” aggiunse tirando fuori dalla tasca un tubo di carta lungo sette centimetri.
Upupone che si era appoggiato con i gomiti sul tavolo per la sorpresa scivolò e per poco non si ruppe i denti. Miche si era portato le mani alla bocca e ridacchiava, mentre io non riuscivo a staccare gli occhi da Melo che teneva in mano la sigaretta con aria trionfante.
“Sei matto” gli dissi “posala subito.” Lui rise “perché, hai paura? Che possono farti? Bruciarti vivo?” e rise ancora. “Finiscila, se ti beccano con quella cosa ti fanno un culo che non finisce più. Ti revocano la licenza. Finirai per strada Melo. Altro che barca.” Aggiunsi serio, ma lui rise ancora più forte. Era eccitatissimo “E se la fumassi?” disse sorridendo come un bambino “Finiscila!” gli dissi innervosendomi sempre di più. “No, cazzo che non la finisco. Sono quarant’anni che non ne vedo una. Non ho mai fumato una cazzo di sigaretta in vita mia. Una volta qui si fumava forte. Fumavano tutti. Alcol e fumo, fumo e alcol. Sai quelle stronzate della sigaretta dopo il caffè? Balle! Ho visto gente scolarsi birre e pacchetti di sigarette come se niente fosse. Come se fossero la stessa cosa. Per questo le chiamavano bionde. Padri di famiglia, donne incinte, chiunque avesse smesso di fumare. Venivano qui, bastavano quattro sorsi e ti scongiuravano di fargli fare anche mezzo tiro. Cazzo, ho visto un sacco di gente incimurrita soffocarsi con questa roba qua. Ho seppellito amici e parenti. Sai, no, quanti ne sono morti? Per questo hanno fatto le leggi. Sono morti tutti. Hanno fatto causa alle aziende. Ed io mi chiedo perché. Cazzo è una cosa che fa schifo, a me fa schifo. Non piace a nessuno, sono tutti d’accordo, felici di non averle più. Allora perché? Perché quel vecchio ha preferito farsi ammazzare piuttosto che spegnere il sigaro? Ora io penso si muore, sì, prima o poi tutti. Anche Napoleone è morto, ma è morto in un mondo tutto suo. Non come dici tu. Nel mondo di Napoleone E se fosse tutta una menata? Che ci fotte a noi di questo pianeta di merda se non possiamo farlo nostro? Sai che ti dico, io questa me la fumo. Io devo fumarla. Napoleone la fumerebbe. Ecco, io forse non sarò mai Napoleone, ma non potrò saperlo. Se non la fumo non lo saprò mai.”
Si era fatto silenzio tra noi. Carmelo fissava la sigaretta con due occhi come se ci vedesse attraverso e respirando affannosamente. Upupone taceva e mi guardava, Miche pure ed io fissavo loro. Nessuno di noi sapeva cosa fare. Infine, dissi, “hai ragione.” Con l’aria di chi si è appena svegliato mi sorrise. Ci scambiammo un’occhiata di intesa e infine annuì.
Aspettammo finché non se andarono tutti. Melo era deciso. Si puliva continuamente le mani sudate sul grembiule. Sembrava che temesse di inumidire il tabacco dentro la sigaretta e che poi non si accendesse più. Questa era messa in piedi al centro del bancone e nessuno di noi osava guardarla. Miche si era allontanato in un angolo seduto con le gambe incrociate su uno sgabello e si passava continuamente la mano tra i capelli. Upupone andava e veniva dal cesso, mentre io e Carmelo sedevamo l’uno di fronte all’altro parlando vicini come giocatori di rugby.
“Non siete costretti a rimanere” mi disse “non me ne vado Melo” gli risposi “sono troppo ubriaco e poi ormai siamo sulla stessa barca.” “Sì, la barca, la nostra barca.” “La nostra barca Melo, ce ne andremo via da questo cesso di merda. Con la nostra barca. Sai che ti dico Melo la fumo anche io questa sigaretta di merda. La devo fumare capisci?” “Sì, capisco” rispose serio ed io non mi sentì mai così vicino ad un altro uomo come in quel momento. “Santo cielo Melo, manca solo che ce lo succhiamo a vicenda adesso” dissi ridendo. Rise anche lui, ma si fece subito serio “e’ il momento” disse.
C’era sotto al bancone un samovar che Carmelo usava per preparare il tè a certi zingari o marinai che venivano dall’est. Pagavano bene, perciò col tempo era diventato molto esperto e si preoccupava di tenerlo sempre acceso. Ci sedemmo tutti e quattro per terra, messi a semicerchio in silenzio come in un rito antico. Eravamo commossi, come se stessimo per dire addio ad un vecchio amico. Upupone tratteneva a stento le lacrime. Carmelo aprì il piccolo sportello metallico del samovar e il giallo caldo della fiamma si dipinse suoi nostri visi. Si mise la sigaretta in bocca e iniziò ad avvicinarsi. Io trattenevo il fiato. Miche si torturava le dita.
“Lo faccio io” disse improvvisamente “fallo fare a me per primo.” Lo guardammo. “Facciamolo tutti” aggiunse Upupone. “Sì, ma io per primo” Insistette Miche. “Ok” disse Carmelo. Anche io feci di sì col capo. “Sai come si fa?” Chiese Melo a Miche. “No.” “Devi aspirare mentre la punta si trova sul fuoco e poi butti via il fumo. Ricordati di inspirare altrimenti non senti nulla.” “Ok” disse Miche tutto compito. Si avvicinò lentamente alla fiamma e accese la sigaretta. Diede la prima boccata e ruppe in una gran tosse. Si fece rosso, poi bianco e mancò poco che ci vomitasse lì davanti. Si diede tre pugni sul petto e iniziò a respirare profondamente. “Tutto ok?” gli chiesi “Sì” fece lui “fammi riprovare” aggiunse dando un’altra boccata. Socchiuse gli occhi in silenzio. Poi sorrise lentamente e infine disse “Sono a spippolandia gente!” muovendo su e giù il capo.
Scoppiammo tutti a ridere. “Guarda che non è mica una canna” aggiunse Upopone “passa qui”. E iniziammo a farla girare tra di noi finché non finì tutta. Ripensandoci non era niente di che, ma ricordo che allora ci sembrò la cosa migliore che avessimo fatto nella nostra vita. Melo aveva l’espressione che probabilmente avrebbe avuto Achab se avesse vinto lui e non Moby Dick. Miche non riusciva a smettere di ridere e ripeteva “poca roba, poca roba purtroppo.” Upupone si odorava continuamente le dita giurando su tutti i santi benedetti che non si sarebbe mai più lavato le mani in vita sua. Io mi lasciai andare con la testa per terra e dissi “Melo, sei proprio un gran pezzo di merda”. E fu così che passò via la nottata.

(bob)


giovedì 21 giugno 2012

Chi pensa male per primo pensa male due volte


pillole da Facebook


Questa frase è la mia dannazione.
Stamattina mi sono accorto che qualcuno in casa aveva finito il provolone e mi è venuta in mente quella celebre frase di Winston Churchill che recita più o meno così: “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”. Questo anche perché la sua faccia (quella di Churchill, che io ho sempre inspiegabilmente associato a quella di Alfred Hitchcock) così bianca e rubiconda a causa delle foto che lo ritraggono più o meno sempre in bianco e nero, mi ricorda in qualche modo proprio un provolone con la forma a mandarino.
Insomma, ho ritenuto che qualcuno approfittando di circostanze di tempo e di spazio a me ignote avesse finito tutto il formaggio che restava dalla sera prima lasciando me, e i restanti membri della famiglia, virtualmente a bocca asciutta per il pranzo di quest’oggi. In realtà, mi sono poi accorto che nel cassetto del ripiano più basso del frigo c’era sorprendentemente una forma di provolone tutta nuova e ancora intonsa che attendeva soltanto di essere aperta e che, quindi, il presunto ladro di cui sopra non era in realtà un farabutto come avevo creduto in un primo momento, ma anzi si era preoccupato di non lasciarmi privo della mia dose giornaliera di grassi animali.
Da tutto questo ho tratto la conclusione che nel pensare male ho pensato male due volte, perché secondo l’aforisma di cui sopra ho fatto peccato, ma in realtà poi non c’ho azzeccato minimamente e perciò ho fatto peccato due volte. Però, è anche vero che se avessi scoperto che il presunto ladro era effettivamente un ladro, perché, ad esempio, non aveva sostituito la forma di provolone rubata con quella nuova (ah, tra l’altro l’etichetta riportava la data di oggi, perciò sono sicuro delle buone intenzioni del presunto ladro), mi sarei comunque ritrovato a pensare male in due casi: il primo avendo ritenuto immediatamente che c’era stato un ladro, il secondo dopo aver confermato questa mia ipotesi perché avrei continuato a pensare che il ladro era di fatto quello che era.
Insomma, sarà per l’immediata associazione tra la faccia di Churcill, la frase di Churcill e il provolone, ma mi sono reso conto che in qualche modo anche per il fatto che si presta a molteplici interpretazioni la frase “a pensar male per primo si pensa male due volte” è l’equivalente letterario delle macchie di Rorschach, poiché chi la legge a seconda delle sue inclinazioni, radicate o transitorie che siano, le attribuisce un significato etico positivo o negativo. Perciò, ho ritenuto doveroso fare un esperimento e l’ho postata su Facebook.
Nel frattempo, però, mi sono reso conto che la frase che io attribuivo a Churcill non è affatto sua, ma del nostro stimato/odiato ex primo di tutto Giulio Andreotti e la cosa mi ha colpito ancora di più che se fossi stato oggetto di attenzioni da parte di uno stormo di colombi con l’intestino allegro appollaiati su un balcone lungo diciotto metri proprio sopra la mia testa, perché di fatto attribuivo all’ ex primo ministro inglese un immeritato cinismo deprimente e senza vie d’uscita: ovvero ho pensato male di lui per primo senza avergli concesso il beneficio del dubbio verificando la paternità della fonte. Questo mi ha fatto riflettere poi sul fatto che nel giro di poche ore avevo trascorso la mia giornata peccando già ben quattro volte fin dal mattino e che quindi la frase in questione si rivelava adesso ai miei occhi come formula della funzione esponenziale del peccato di pensare male: chi pensa male pecca due volte.
Ora, io non sono esattamente quello che si dice un credente, ma credo in senso lato al concetto di karma secondo la cultura induista come causa ed effetto delle nostre azioni o pensieri e quindi mi sono ritrovato a pensare che avevo irrimediabilmente innescato un meccanismo di disequilibrio potenzialmente distruttivo del lieto trascorrere della mia giornata. Per di più, si tratta nella specie di una di quelle insospettabili mattinate pre-estive di una tale rara bellezza da insinuarti il dubbio dell’esistenza di un principio sommo regolatore che proprio oggi ha pietosamente stabilito con un lancio di dadi di consentirti di dedicare proficuamente il tuo tempo in una qualsiasi delle virtuose attività a breve o lungo termine che possano venire in mente di realizzare a chiunque abbia un po’ di sale e una zucca in cui tenerlo. Il che, come credo sia facile immaginare, ha generato in me uno stato d’ansia simile a quando da piccolo ti rendevi perfettamente conto di non dover minimamente giocare con il pallone in casa, ma lo hai fatto lo stesso e ora ti ritrovi con ben due quadri precipitati per terra da una posizione esattamente troppo alta perché tu possa averli sfiorati col tuo corpo inavvertitamente mentre passavi tranquillo per il corridoio e per di più non vi è alcun buon motivo che giustifichi il foro di entrata del coccio di vetro grosso quanto un dito che ha lacerato la camera ad aria del Super Santos nuovo che avrebbe dovuto trovarsi chiuso nello sgabuzzino assieme alle altre cose da mare e invece giace come una medusa arenata in un angolo alla fine dello corridoio in cui si sono sparsi i vetri di quelle che un tempo erano due comuni cornici prefabbricate acquistate alla Standa prima che tu nascessi e a cui tua madre non si sa bene perché teneva in una maniera apprezzabilmente sufficiente da farla andare su tutte le furie nel caso in cui fosse successo loro qualcosa (senza considerare la palese violazione dell’espresso divieto di giocare a pallone in casa).
Tutto questo ha e sta avendo delle ripercussioni devastanti sulla mia persona a causa della memoria selettiva che a seguito di queste riflessioni è ormai entrata in fibrillazione e mi ha costretto per il resto della mattinata a pensare a tutti i casi in cui si realizzava o si era già realizzata questa funzione esponenziale, perciò mi sono reso conto che anche solo il fatto di aver pensato di essere stato in grado di disequilibrare il mio equilibrio karmico aspettandomi inconsciamente tutto il peggio possibile dal resto della giornata mi rendeva parte dello stesso meccanismo che avevo contribuito ad avviare e che magari è proprio questa cosa su cui mi ritrovo a riflettere adesso ciò che si dice in gergo “negatività”. Infine, mi rendo conto che anche l’idea di partenza per cui la frase “a pensar male per primo si pensa male due volte” potesse funzionare come equivalente etico delle macchie di Roschach era di per sé una presunzione negativa nei confronti di chi si sarebbe ritenuto disposto a commentarla, poiché ai miei occhi facendolo (cioè interpretando la frase a modo suo) sarebbe potuto rientrare inevitabilmente soltanto nel tipo A negativo o nel tipo B parzialmente negativo della tesi originaria.
In pratica, ciò che cerco di dire è che credo di essermi ritrovato nel circolo vizioso di un meccanismo di autoconsapevolezza distruttiva che allo stesso tempo non solo mi perplime affannosamente, ma mi precipita in una spirale di mediocrità e vergogna per l’autocommiserazione che sento di provare e suscitare nei confronti di me stesso. Perciò, credo che il primo passo per venirne fuori sia semplicemente quello di cancellare questa frase che assume adesso ai miei occhi più o meno lo stesso significato della scena in cui ne La Casa di Sam Raimi la voce del ricercatore morto che esce dal registratore a nastri magnetici declama ad alta voce i versi del Necronomicon, ma non prima ovviamente di averti in maniera esaustiva spiegato i motivi di questa mia altrimenti incomprensibile decisione che troveresti del tutto ingiusta ritenendo magari che lo abbia fatto per qualche sorta di risentimento nei tuoi confronti che in realtà ti assicuro non esiste e per dimostrartelo metterò mi piace al tuo commento che trovo veramente puntuale e dimostra l’attenzione (che io apprezzo moltissimo) nei confronti dei miei aggiornamenti di stato.

p.s. mi rendo benissimo conto che anche questa ultima frase è abbastanza carica di negatività e cela una presunzione negativa nei tuoi confronti come se tu potessi ragionevolmente essere portato a pensare male di me, però credo che sia ancora colpa degli effetti nefasti del disequilibrio karmico che sta segnando questa giornata di merda e da cui tento in tutti i modi di venire fuori.


 (bob)

lunedì 18 giugno 2012

Prove di cinismo


Altro ponente se ci sei
immerso in un amore che
si trascina. Negli occhi,

nel ventre e nelle calze.
Fra le corde delle ossa e
terminazioni marine.

Sotto pelle invisibile, in
arterie e vene da cui sgorga
lo stesso sangue. Tra

i monti, sulle labbra e in
gola, fra bolle di coca-cola
che sollevano i polmoni.

“Sogno noi due in un suono.”
Fino al foro del culo con
mani, graffi e polluzioni

immense. Tra peli ovunque,
campanelli che rassomigliano ai
tuoi. Sotto unghie, tra tendini

e cavi elettrici della televisione.
In ogni muscolo della mano,
dalla mente ai piedi con un segno

di saliva attorno al cuore.
Nella scossa del torace da cui
fugge come un verme il respiro.

Nello scheletro d’alba che
scivola per terra e colora
il resto di un preservativo.

(bob)


domenica 29 aprile 2012

Il buongiorno non si vede se non dormi


Il mare. Un silenzio. Una tavola di legno blu. Le venature. Capelli al vento. Ho dormito con troppe persone. Sono stanco. Come la pelle di un vecchio puffo. Come vernice in decomposizione. Il mare che corre non si sa bene dove. Largo.
Lo spruzzo di cotone di una maglietta. Lo specchio. L’ambizione grande come il cielo di non doversi alzare. Più alto. Più tondo. Più blu di tutto. Liquido oltre il marrone. Arenato come un tronco sulla sabbia. Come cartilagine. Come l’ustione di primo grado che ho sul naso. Il segno degli occhiali da sole.
I denti che macinano come scogli la saliva. Vestirsi senza ingoiare il piercing che mi cresce sulla lingua. La bocca come un fucile. Rossa. Correre. Correre sì, ma dove? Sgambare in aria. Le lenzuola sverginate. La posizione per dormire. Da un lato il silenzio, dall’altro il muro. Correre fuori dunque. Partire verso una qualsiasi direzione.
Un punto. La piazza che sembra un’infezione. Ho le scarpe consumate. Il male. Un’ulcera di gente che si accalca sui piedi. All’ombra. Attorno ad un cono di luce. Una lente che ti esplora. Che ti prude. Come il gioco di un bambino. Che ti ammala di malaria. Che brucia foglie attorno ad un punto preciso dello spazio. Che si spacca. Che ti prude. Oltre. Attorno. Che ti ammala la pelle. Che ti fa innervosire.
Così penso, anche tu esci dal mondo. Da questo carro che gira attorno a un muro. E forse ci si è fatti larghi per vederti. O vedersi meglio. Per non perdere il senno contando gli spazi. Le carezze. I mille occhi neri. Gli sbuffi d’aria. I dieci, cento baci per volerne altri cento sul viso. Le bolle blu. Il pallottoliere degli occhi che fugge via. A cercare un senso da qualche parte, un passo più simile al tuo. Verso rotte orbitali. Verso autostrade. Qualcuno che ogni tanto fa domande. Un soffio di vento. Lo scrollare d’ali di un piccione. Io che cerco di prenderlo con le mani. Il giro di ruota del tempo. I vecchi appollaiati sulle loro panchine come poltrone d’ottone. Una figura che passa e sembri tu.
Capita invero che ci si sbagli. Che taluno pretenda da te la chiave. Capita e vorresti proprio farne a meno. Vorresti scardinare il giorno. Fare un parapiglia tra gli anni. Credere che sia vero il non vero. L’irreale. L’impossibile battaglia di un polline contro un treno. La teoria dei quanti. La scommessa che un giorno torni a galla la cannuccia spezzata per bere. Capita ogni tanto che qualcuno rincasi senza chiavi e che il giorno dopo si risvegli non sapendo o venga per raccontarcelo in silenzio. Così penso, si potrebbe fare piovere un poco. Lasciare crescere il pane. Parlare di biscotti con le stelle. O sentirti bussare là dentro chiusa come un libro. Aprirlo baciandoti il petto.
Aprile che te ne vai via crudele, con la disattesa promessa di illuderci un poco. Rifiuti orchidee. Spargi semi di girasole. Abbiamo cantato vittoria troppo presto. Sei come una palla di cannone. Una bestemmia. La campana che urla un nome e ci fa segno col dito di tacere. La voglia di fare a botte in un locale. Aprile sporco imbroglione.

(bob) 

sabato 14 aprile 2012

Deca Dance

***

Mauro Repetto non esiste. E’ l’unica soluzione possibile. L’illuminazione di una sera. Lo strano sogno dell’illogica collaborazione tra Max Pezzali e Max Pezzali. Qualcosa di metafisico. Tipo paradigma quantico. Roba forte. L’assoluta sensazione che il biondino degli 883 fosse soltanto un parto della fantasia di Massimo Pezzali. Come il demone di Stravogin. L’incarnazione del male. Come la più grande allucinazione collettiva della storia. Come se milioni di persone avessero potuto stabilire un contatto emotivo tra di loro. Come il Mercerianesimo. Il diavolo che balla nelle notti di luna piena. Mauro Repetto che saltella come uno spiritello fuori da ogni circostanza di tempo e di spazio.
            Il biondino degli ottottotré, ne sono ormai certo, non esiste. Un giorno semplicemente Max ha smesso di credere in lui. Come dovrebbe sentirsi Capitan Uncino se Peter Pan decidesse di non giocare più ai pirati o darsi alla PlayStation. “Mi dispiace Unc.”
            E’ così. Non può essere altrimenti. I video lo dimostrano. Mauro e Max non incrociano mai lo sguardo. Si danno per lo più le spalle. Stanno lontani. E quando non è così è per pochi attimi, giusto il tempo per la camera di staccare. Alla staticità di Pezzali, alla sua mole, al capello corto, si contrappone il dinamismo di Repetto, l’esilità, la chioma fluente. Il biondo e il nero.
            Il male è il nulla. La brama parassitaria dell’esistenza. Come i Visitors, come gli Ultracorpi. Così anche la parabola post-ottottotré di Repetto sembra la storia di una goccia nel mare. Si è smaterializzato. Finito secondo alcuni a fare il dirigente a Disneyland. Con moglie e figli. In qualche abito da centinaia di euro. Ogni tanto rimette su la giacca di pelle e anche un po’ del vecchio magnetismo risale. Prende corpo. Qualcuno giura di averlo visto. Fotografato addirittura. Come Nessee, come Big Foot.
            E per gli amanti dell’analisi testuale, delle prove. Per gli scettici. Basta leggere i testi scritti in collaborazione con Pezzali. L’annichilimento. La negatività, l’aberrazione di un mondo dove addirittura gli eroi vengono uccisi. Inspiegabilmente.
La negatività ancora dell’impossibilità di cambiare lo status quo, “Con un deca non si può andare via”. La negazione sempre e comunque, il “non” che ritorna compulsivo nello sfogo di “Non me la menare”, nell’ammonimento Edipico di “Questa casa non è un albergo”. I non-luoghi di Jolly Blu, il Nord Sud Ovest Est fuori dal tempo, ovunque, non qui. “Di’ di no!” L’apatia del tempo che scorre rapido come un Weekend. Fino al Grande Incubo di chi non vuole svegliarsi mai. E poi? O me o quei deficienti lì.
            Svegliati Max. Mauro Repetto non esiste. Hai provato a dircelo in tutti i modi. Ed è questo lampo, questa illuminazione, questo demone. Come si fa a parlare di qualcosa che non esiste? Come si esorcizza il male? Il male non esiste. Vive come un tumore. Porta alla distruzione. Brama l’esistenza, ci prova in tutti i modi. Non gli importa come.
            Il male a cui non avevamo fatto caso. Che sbracciava come un ossesso proprio sotto qualcosa che va oltre la punta del cuore.

(bob)


venerdì 6 aprile 2012

Sottocassa a sinistra














Quel giorno di Capodanno l’Italia si divideva in tre parti.

La prima era costituita da quelli appena rientrati dai rispettivi veglioni di fine anno, a letto, in coma, e sporchi di cornetti alla crema (delle sei) che non fanno male («è solo il giorno che muore»).

La seconda era praticamente nelle stesse condizioni della prima, in alcuni casi molto peggio. La differenza stava nel ritrovarsi a tenere testa dopo sole quattro ore di sonno al pranzo in famiglia di Capodanno. Lasagne al forno, maccheroni con il sugo della capra, capra, ‘nduja ammorbidita con lo “scalda’nduja”, polpettoni atomici, cotolette di pollo e carne, patate al forno con peperoni, caponata, braciolette di pollo, macedonia, tiramisù fatto in casa, pandoro tagliato a fette e farcito con la crema dello stesso tiramisù. Non fosse per quei maledetti postumi che suggeriscono come dovesse sentirsi Clifford Etienne dopo l’incontro in cui Tyson lo asfalta in quarantanove secondi.

La terza, un’infinitesima minoranza, rappresentava seimila persone riunite sotto lo stesso tetto di kilowatt ed eternit, di amianto scosso a colpi di cassadritta e piste acchittate su specchietti con i quali non è sempre possibile giocare ad arrampicarsi, novelli staffettisti che si passano testimoni sotto forma di bottigliette d’acqua ritoccate.

L’ex acciaieria di Milano Nord ospitava il teknival più grande d’Europa il giorno di Capodanno.

Leonardo, Gloria e Max hanno passato la sera del trentuno in casa del Dottor Gonzo, il loro pusher di fiducia. Allo scoccare della mezzanotte niente spumante e panettone. Solo dosi di ketamina intervallate a giri di cilum. Ancora non conoscono la location che ospiterà la festa. Come buona prassi, gli organizzatori non lasciano trapelare nessuna informazione precisa, se non a pochissime ore dall’inizio, aggirando potenziali sgomberi da parte della polizia. Per Leo non farebbe alcuna differenza saperlo, dal momento che ha già iniziato a viaggiare dalla seconda botta di ketamina. Sette secondi, e tutte le regole che hanno governato il mondo fisico prima di allora vanno a farsi benedire per una mezzora abbondante. Un ralenti di dimensioni bibliche e dai contorni più che mistici è quello che si presenta ai suoi occhi e alle sue occhiaie. L’attimo in cui Max gli tende il cilum si dilata nelle pieghe dello spazio-tempo, per concludersi nell’amara e beffarda consapevolezza di star dando vita alla tossica rappresentazione della Creazione di Michelangelo. Gloria, nel frattempo, padellino in una mano e cucchiaio nell’altra, cucina la restante ketamina liquida rendendola polvere e trasformandola implicitamente nella colazione al sacco che i tre hanno deciso di portarsi alla festa. Da buon padrone di casa, il Dottor Gonzo fa un ultimo regalino ai nostri: una pasticca di Virgin underground. A testa. Quello che la rende speciale non è la quantità spropositata di MD, bensì quello 0,2 di mescalina che renderebbe orgoglioso il Battiato di Gommalacca.

In macchina la velocità dei bpm non si schioda dai 180 canonici, salvo scendere ai 140 di Congo Natty non appena giunti sulla tangenziale. Tempo di fare qualche chilometro e Gloria riceve un messaggio sul cellulare che la informa della location.
L’acciaieria era uno dei più grandi centri occupazionali d’Italia. Negli anni ottanta sfamava circa duemila famiglie, metà delle quali provenienti dal meridione. Il fallimento e il suo successivo abbandono, sono stati la conseguenza naturale della crisi del nuovo millennio. Oggi è un enorme scheletro rivestito di eternit, con le vetrate opache logorate dal tempo .

L’amianto è un compagno infaticabile in posti come questi.

Il posto è così grande da ospitare due sound, posti l’uno di fronte all’altro, agli angoli della fabbrica. Al centro c’è un falò, davanti al quale un cane sta tenendo al guinzaglio il suo padrone, ormai accucciato da tempo, forse da sempre, anche da prima della festa. Non appena ci si allontana dal fuoco e ci si avvicina verso uno dei due sound, la densità di gente sale in maniera vertiginosa. Leo, Gloria e Max si dividono la colazione al sacco prima di sgomitare e tentare di guadagnare posizioni verso il sound.

Arrivati sottocassa, il rush della Virgin Underground dura un’ora abbondante, un’ora in cui leggenda e mito si mescolano alle migliori storie trobadoriche, in cui Tolkien prende per la mano Stephen King e insieme vanno al cinema a vedere Monella. Colpa del mix con la ketamina di prima, colpa dei giri di cilum, o colpa di tutte le sostanze psicotrope che ha preso nella sua vita e che ora giungono alle porte dei suoi recettori, Leo inizia ad esperire quello che a tutti gli effetti sembra essere un viaggio astrale. La visuale dall’alto gli ricorda la Sky Cam tanto cara a Caressa, con la differenza che qui non si tratta di rivedere gli ottanta metri di volata di Del Piero nella semifinale di Berlino, bensì una visione aerea del sound, sotto al quale scorge una minuscola figura riconducibile alla sua stessa persona.

Lui, piccolissimo davanti alle casse, e nessun’altro attorno.

La ketamina fa di questi scherzi, a maggior ragione se associata ad un rush da pastiglia. Non è la sostanza o l’esperienza in sé ad essere fuori luogo, piuttosto il contesto. L’illustre scienziato Dean Mobbs, a Cambridge, lo fa da anni, senza amianto né cani attorno, e si diverte un sacco a pubblicare una ricerca dopo l’altra su Science.

Il viaggio astrale di Leo tende a chiudere quel circolo del paradosso secondo il quale l’esperienza extracorporea si rivela spesso metafora della realtà. Effettivamente, in quell’istante, l’ultima cosa che riuscirebbe a fare sarebbe comunicare con un altro essere vivente. Invece tenta di farlo stoicamente, cercando un remoto punto di contatto con quella montagna di lardo che lo sta per sotterrare di botte. Leo ha la colpa di aver fissato incessantemente la pseudo-ragazza di Majin Bu, con la stessa consapevolezza con la quale ci si trova a guardare Marzullo alle due di notte, dopo un’overdose da Nutella. La tipa deve aver conservato giusto qualche neurone in più, dal momento che, oltre al romanticissimo scambio di sguardi, ha iniziato ad avvicinarsi pericolosamente al nostro, nel frattempo in totale balia della tempesta descritta ne “Il manoscritto trovato in una bottiglia”. Le cronache raccontano di un lasso di tempo inesplorato, prima del quale si colloca la tempesta e, solamente dopo, un abbraccio fraterno che il nostro scambia con la montagna di lardo. A tutt’oggi non è dato sapere cosa sia successo nel mezzo.

Il piccoletto con l’infinito tatuato sulla schiena batte forte la testa sulle casse. Da dietro, Gloria e Max sorridono mentre vedono colare del sudore nero che gli parte dalla nuca per arrivare fino al bacino. I rivoli formano una specie di muso lungo e intristito, una specie di espressione all’ Andrè The Giant in versione stencil di Obey. I nostri credono di doversi trovare davanti quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che aveva lui (che aveva visto Hulk Hogan schienarlo nell’evento che cambiò per sempre il wrestling). Il piccoletto invece si gira mostrando trentadue denti in fila, al loro posto, e un sorriso splendidamente aperto, cristallizzato, forse anche paralizzato da quella che senza ombra di dubbio sembra l’opera di uno 0,5 di MD.

Leo ha scollinato e può finalmente godersi il suo viaggione senza timore d’essere assalito da chicchessia, al limite solamente dalla scimmia che lo sta braccando da prima dell’avvento dell’anno nuovo. Riesce addirittura a confezionare spinelli in serie con il nero che Gloria e Max gli hanno gentilmente messo in mano. La mascella va su e giù ricordando Hendrix all’Isola di Wight. Dopo qualche minuto si ritrova intorno tre o quattro personaggi a cui offre tiri su tiri: loro apprezzano, e iniziano subito a ricambiare il favore confezionando anch’essi spinelli in serie. Ai quattro si aggiunge sempre più gente, forse presa bene dal clima familiare spontaneamente creatosi. Quando arrivano ad essere una quindicina, decidono di andare a ballare sottocassa. A sinistra ovviamente. Gloria e Max sono lì da un po’, sgambettano puntualmente al ritmo di un’hardtekno che viaggia sui 190 in quanto a velocità di crociera. Come spesso accade, l’arrivo della mattina viene celebrato da una Jungle che si prende cura di tutti i sorrisi.

Il teorema jovanottiano del «la rivedi la mattina e ti sembra una strega» assume contorni ancora più netti e palesi, ulteriormente snellito della sfumatura “sessista”, per essere esteso alla quasi totalità degli astanti, siano essi maschi, femmine, queer, transgender o platinette. La mattina si fa compagna crudele, toglie il “velo di Maya” dai volti trasfigurati, idealizzati, sfiorati, annusati e abbelliti per tutta la notte, restituendo alcuni dei partecipanti alla consapevolezza di essere in libera uscita dal “Giardino delle delizie” di Bosch, creature multiformi, non per ingegno, né per duttilità, bensì per pallore e occhiaie seconde solamente a quelle di Max Shreck.

Leo si è stancato di inseguire lo 0,8 di MD, mentre si allontana dal sound vorrebbe assecondare piuttosto lo 0,2 di mescalina. Fuori fa freddo, eppure c’è un sole chiarissimo. Se nemmeno Switch di Dj Fresh riesce a trattenerlo e rispedirlo sottocassa a sculettare con gli altri, vuole dire che deve uscire fuori. Prima di varcare la soglia della fabbrica si ferma a guardare Tarzan: carrucola e catena al posto della classica fune, mentre nessuna Jane da portare in salvo, solo una paccata di coca e speed da smaltire con la dovuta attività fisica, percorrendo l’acciaieria da un estremo all’altro. In una decina di minuti passa in rassegna tutte le macchine parcheggiate, addosso alle quali sono appoggiati capannelli di ravers intenti a rollare.

Il prato che gli si stende davanti è immenso.

Quando scorge lontanamente la figura di un ragazzo, seduto con le gambe distese e le braccia all’indietro, crede possa trattarsi dello stesso deja vù della Sky Cam sopra le casse. Anche fosse lui stesso, disperso in una delle innumerevoli pieghe dello spazio-tempo, gli viene in mente che non sarebbe una cosa malvagia farci due chiacchiere. La richiesta di una cartina per fare una canna è probabilmente la migliore scusa di tutti i tempi in fatto di abbordaggio, ne sono nate storie incredibilmente serie, oltre a stirpi innumerevoli di fanciulli concepiti nel nome del più tenero fricchettonaggio. Non si tratta di un viaggio astrale, e nemmeno di un ragazzo, bensì di una splendida ragazza dai capelli cortissimi e neri. Mentre si danno la mano, si accorgono di avere un tatuaggio che recita la stessa frase: «Tell us all today if you know the way to blue”. La strada per il blu è lontana dal sound, non ha un tetto di eternit a coprire il sole, è chiara come l’aria che i nostri due hanno intorno in quel momento, cristallizzato eternamente in un abbraccio di trentanove minuti dopo il quale iniziano a fare l’amore con le mani e ad ascendere al cielo come Remedios la bella.


(Michelangelo)

domenica 25 marzo 2012

Milady

Subito si arrestò senza potere fare nulla. Fu l’unico tentativo di trattenerlo con le proprie forze, dopo di che lo seguì a testa bassa. Per quanto potessero essere fumosi i pensieri che affollavano in quel momento la sua mente, comprendeva in maniera lampante che sarebbe andato anche da solo e che quindi non restava altro da fare. Poteva percepire la sua determinazione pur tenendosi dietro a due passi di distanza. Per tutto il tempo non aprì bocca, ma la strada gli era nota, per questo non fu difficile seguirlo mentre, per vie traverse, cercava percorsi poco frequentati. La meta in fondo era quella.
        Giunto in prossimità della casa, un grande e logoro complesso di legno della fine degli anni ’80, vide uscire un’infermiera col cappotto assieme ad una donna anziana insolitamente più alta. Scesero tutte e due lungo lo scivolo dinnanzi alle due grandi porte dell’androne conversando sommessamente e dividendosi l’un l’altra una sigaretta. Non rivolsero neppure un’occhiata al sopraggiunto, ma salirono subito in macchina. Perciò non poterono notare neppure Rupert che scivolava nel buio dietro il paraurti del veicolo. Una pioggia sottile aveva iniziato a cadere proprio in quel momento su tutta la strada.
            Appena la macchina si fu allontanata abbastanza Monica, che aveva osservato tutta la scena, venne fuori per fare entrare Giovanni e il cane chiudendosi la porta dietro le spalle.
- Dentro l’Hospice non c’è più nessuno eccetto noi tre – commentò quasi tra sé fissando Rupert che si scrollava il pelo.
 Al piano di sopra attendeva Natalia, già pronta per la notte con un pigiama leggero da uomo. Fece come per alzarsi e venire loro incontro quando li vide entrare, ma sorrise di sé e poi a Rupert che aveva appoggiato il muso sul suo cuscino e la guardava fisso.
Gli occhi di lei si posarono su Giovanni che era rimasto dietro e si fecero fermi e seri. Lui sedette discosto sul divano nell’altro angolo della stanza. Monica restò in piedi accanto al letto rifiutandosi di sedere. Rupert si mise a guardarla perplesso quasi con afflizione, ma Monica che era quel tipo di ragazza che sembra sorridere anche quando sta seria lo rincuorò e lui si lasciò andare a terra. Si fece così un altro po’ di silenzio.
Una nota di terrore scivolò sul volto di Natalia, i suoi occhi si dilatarono e le pupille si fecero sottili. Non riusciva a schiodare lo sguardo dal figlio, il quale  non sembrava affatto intimidito. Entrando Giovanni aveva rivolto appena un’occhiata alla stanza ed un senso di sconforto gli era passato rapido sul viso così come se n’era andato. L’ombra della flebile luce che filtrava dalla porta si sposava bene con l’espressione di lui che adesso si era fatta pensierosa. Ogni tanto si rassettava la giacca ed incrociò addirittura due volte entrambe le gambe che gli davano noia a causa di un problema alla schiena. Non si accorse nemmeno di essersi sporcato i risvolti dei pantaloni prima di entrare. Infine sollevò gli occhi verso la madre e capì subito tutto ciò che le bolliva in mente. Il sangue scosse il sangue e Giovanni ruppe il silenzio.
- Avrai certo capito il perché di tutto questo – disse con aria finale assai lentamente e fermandosi su ogni parola come se le distribuisse per bene nella stanza.
- Io non capisco – rispose Natalia in modo reciso.
Giovanni si ammutolì. Al suono della voce di lei qualcosa gli passò dentro e all’improvviso gli sembrò strano trovarsi in quella situazione. Notò che il volto della madre si era fatto più duro, le rughe profonde e cavernose come quelle di un muro, le labbra sottili. La voce sembrava le resuscitasse da dentro lo stomaco o da un posto molto più in là di lei. Non la vedeva da mesi. Arrossì per questo.
- Fingi di non sapere mamma – disse con decisione, ma con un filo di voce, sebbene sapesse che c’erano solo loro nell’edificio.
- Perché dovrei? – domandò la donna cercando di sorridere, ma un fremito di tosse la interruppe.
            - Ne approfitti – rispose Giovanni tentando di riassumere il controllo della conversazione.
            - Non mi è consentito alzarmi.
Giovanni sollevò la testa di scatto. Si voltò verso la sorella e poi di nuovo verso la madre. Qualcosa in tutta la conversazione, ma soprattutto nel modo di pronunciare quest’ultima frase, gli insinuava l’idea che si prendessero gioco di lui, che gli si rinfacciasse qualcosa – Calmatevi entrambe – disse – non ho bisogno di motivi per bisticciare.
            - Sei venuto per litigare dunque – disse Monica sentendosi chiamata in causa – non hai rispetto.
          Natalia zittì la figlia tendendole la mano. Questa gliela strinse forte pentendosi di aver pronunciato quelle parole, ma ormai i due fratelli si guardavano l’un l’altro con livore. La quiete di prima si era dissolta. Come se si fossero risvegliati da un lungo sonno tutti e tre percepivano adesso la concretezza della situazione. Le due donne disprezzavano l’uomo che sedeva loro di fronte e parimenti egli sentiva il bisogno di comunicare lo stesso velenoso sentimento che gli scuoteva l’anima. A tal punto si era capovolta la situazione e l’aria si era fatta in così poco tempo elettrica che Monica, stupendosi di se stessa, si ripromise di tacere per non compromettere tutto parlando lei per prima delle e-mail. Ella sapeva bene che la madre avrebbe voluto che fosse il fratello a tirare fuori l’argomento e non lei.
           Monica lasciò la mano della madre e tese un fazzoletto a Giovanni.
           - Pulisciti – disse, facendo un cenno verso i pantaloni.
       - Ricominciamo – iniziò Giovanni asciugandosi i risvolti con calma – non ho la minima intenzione di mettermi a litigare qui con voi dicevo. Sono venuto a tendervi una mano. Voglio rispondervi di persona, mi sembra il minimo dopo quello che è stato detto e scritto. Della vostra decisione non sono contento, anzi mi sento offeso. Più di tutto però sento pietà per te mamma, che sei una persona troppo orgogliosa e nemmeno di fronte ad un’esplicita richiesta di tuo figlio vuoi dimostrare un po’ di scrupolo. Ecco ti parlo direttamente come si dovrebbe fare sempre e specialmente in questi casi. Così facendo dimostri più amore per te stessa di quanto dici di volerne a me e anche a Monica, sebbene ti sostenga in questa assurda idea. La vanità è sempre stata il tuo punto debole e anzi credo che se ti fosse capitata un’occasione meno importante di questa saresti stata infelice.
        Giovanni aveva provato più volte nella sua testa quel discorso e ne pronunciava ora non le esatte parole, ma solo quelle che riusciva ad articolare nel tentativo di non farsi prendere dalle emozioni. Sentiva ogni sillaba che usciva dalla bocca vibrare di una nota di rancore di cui temeva l’improvviso ritorno di fiamma. Per questo motivo fu molto contento della misura e del tono usati, i quali, però, proprio per questa compiacenza che non riusciva a non fare affiorare sul viso producevano un effetto del tutto contrario sulle due donne.
           - Monica mi ha scritto quella prima e-mail. So che è stata lei, perché le parole usate me ne hanno dato conferma. E sono le stesse che usa ora. “Rispetto”. Che cosa vuoi che ne sappia del rispetto una che parla per conto altrui. Magari l’idea di Rupert è tua mamma, è esattamente il tipo di idee stucchevoli che partono dalla tua testa, però tutto il resto no. – aggiunse infine in modo grave parlando come se la sorella non fosse presente.
           - Anche il tuo rispetto è stucchevole – rispose Natalia con quell’amara ironia tutta femminile di cui ogni tanto anche lei era capace.
            - Pensa quello che vuoi. Quando le chiesi chiarimenti lei mi disse che è tanto che ti tormenti, che soffri, che parli con i medici. Lei è in pena per te, dice di non riuscire a dormire la notte, che vederti come sei le fa piangere il cuore. So che non esiste persona più semplice d’animo di lei e per questo so che si inganna. Il cuore le parla una lingua più chiara della ragione e tu lo sai. Lo sai e ne approfitti.
            La pioggia si era fatta forte e nella stanza era sceso un silenzio ancora più profondo di prima. Gianni fu zittito dal suono delle sue stesse parole e si incupì al pensiero di come avesse potuto esprimersi in quel modo, liberamente, mostrando tanta indifferenza per l’effetto che avrebbero potuto produrre nella mente di sua madre.
             - Questo è quanto – aggiunse infine.
          - E allora perché ne parli con me? – rispose Natalia sempre con quella sua voce secca che ormai aveva ben poco di umano.
            Gianni si fece paonazzo.
            - E’ mio diritto sapere cosa ti passa per la mente. E’ mio diritto esprimere un’opinione sulla faccenda, capire quanto anche lei sia impazzita e dire ad entrambe che di Rupert io non me ne faccio niente, che mi è di peso, che se lo amate tanto potete pure tenerlo per voi. Soprattutto è mio diritto di figlio, finché sarò figlio tuo, oppormi con tutte le forze contro questa decisione. Che baratto è mai questo?
           - Che baratto? Rupert è il tuo cane. Io gli voglio bene, ma non mi sembra il momento di discutere di lui. – rispose con un filo di voce Natalia.
          - Io non voglio discutere del cane! – Urlò finalmente Gianni con tutto il fiato che aveva in corpo. – Quelle e-mail! Falla finita se hai deciso così, perché quelle e-mail? Credi che sia così matto da denunciare mia sorella? Questo ho pensato. Mi compromette con la scusa del cane. Il cane è già mio, ma che prove ne ho? Perciò se volessi denunciarla dovrei stare attento al cane. Però, no, il cane non c’entra niente, non è questo. Tu vuoi darmi il tormento. Vuoi che assista, vuoi sentirmi urlare, vuoi l’atto eroico. Vuoi farmi vedere come muori sola. Perché non fate quello che dovete fare tu e lei ora che l’hai convinta che sia la cosa più giusta? Perché ci metti in mezzo il dannato cane? Perché non vuoi avere sulla coscienza questo peccato, perché mi vuoi complice, partecipe di tutto. Ecco perché. Sei troppo istruita, certe idee ti hanno dato alla testa. Lo dici di me, ma non so, io credo che tu sia davvero posseduta come si dice in giro. Lo sai, no? Si dice che tu non sia malata, che tu non abbia il cancro. Il cancro capisci, hai il cancro! No, dicono che tu sia posseduta, la gente dice questo, che l’Hospice lo chiudono perché tu l’hai maledetto e nessuno ci vuole più morire dentro…
         - E tu non sei posseduto che parli così davanti a tuo padre? – disse Natalia facendo un cenno verso Rupert con quella sua voce sempre più stridula e tronca.
Tutto era andato all’eccesso fin troppo velocemente. Gianni infine si era fatto prendere dall’emozione e adesso tutte quelle parole restavano appese in aria come stalattiti nello stesso modo in cui erano affiorate col tempo nella sua mente. Egli non sapeva a cosa credere ormai, se a tutte quelle storie sugli acidi, sui romanzi che le avevano dato alla testa o sulla possessione demoniaca addirittura. Sciocchezze. Pazza, così l’aveva chiamata tanti anni prima la zia e adesso, così inaspettatamente, la soluzione si presentava dinnanzi a lui. In realtà, però, molto al di sotto di tutto questo c’era in quella donna sprezzante e orgogliosa una creatura più tenera e pudica di quanto egli avrebbe potuto immaginare. E c’era anche tutto quello che era stato detto e che non le era mai riuscito di raccontare come si deve ad almeno uno dei suoi figli.
- Cosa hai detto del cane?
- Non ho parlato – rispose con meraviglia Natalia guardandosi attorno come se ci fosse qualcun altro dietro di lei.
- A chi guardi? Chi c’è qui? Ci sono io? Mi vedi? Stai prendendo le pillole mamma? Gliele date le sue medicine? – aggiunse infine rivolgendosi alla sorella.
- Che ne sai tu di quello che succede qua dentro? – disse finalmente Natalia come presa da un sussulto – Che ne sai tu che cosa vedo io?.
- So che se non prendi le tue medicine mamma ti metti a parlare con i muri. Dici cose, strane. Parli di statue che passano per la stanza che nascondono le anime delle persone o non so cosa. Tu non sei in grado di intendere e di volere mamma.
- Finiscila, pazzo! – esplose Natalia con voce cristallina come se si fosse sforzata di vincere il dolore che le opprimeva il petto – Tu, non capisci. Tu mi vuoi morta!
- Io ti voglio viva, voglio che ti rimetta e che non parli più col cane.
- Che ti ha detto?
- Il cane non parla! – disse infine Gianni disperato.
Sempre seduto si passò le mani sul viso che si era fatto ora molto pallido. Si alzò come per andarsene, ma Monica lo arrestò.
            - Guardati – gli disse furente – guardala! Non vedi che sta male? Ti senti normale tu? Come puoi dire queste cose in faccia ad una persona che sta morendo. E’ tua madre santo paradiso! Ti senti di essere solo tu quello normale in famiglia? Ti sembra normale essere costretti a morire in quelle condizioni? Sì, la mamma me l’ha chiesto quando era ancora lucida, ma poi tutto il resto l’ho fatto io. Sono io che voglio che muoia, perché soffre, perché lei vorrebbe uccidersi, ma non può farlo. Non ce l’hai un cuore Giovanni!
          - Un cuore, tu? – chiese Gianni credendo di impazzire per lo stupore, perché lei, che era la più piccola, aveva fatto tutto questo e soprattutto gli parlava adesso con quel tono.
           - Anche io. L’hai detto tu prima del resto. Ed io credo che anche tu abbia un cuore. Tutte quelle cose che dici, la vanità. Anche tu sei vanitoso Gianni, lo vedi che sei vanitoso? Sei qui, no? Potevi restare dove sei stato, ma sei venuto qui. Potrei dirti che anche tu lo fai per cinismo, per vanagloria, per orgoglio. E invece no, me ne sto qui a guardarti infierire su quella povera malata che è nostra madre senza nessuno scrupolo per lei. Sì, scrupolo, sono parole tue, Gianni. Tue e soltanto tue. E adesso te la prendi con me perché sei soltanto geloso…
          E così dicendo iniziò a percuoterlo sul viso e scoppiò in lacrime. Gianni la bloccò stringendosela al petto. Anche in quel frangente si stupì di sé, poteva sentirla pigolare come un pulcino tra le sue braccia e allo stesso modo gli sarebbe bastato un po’ di quel rancore che poco prima sentiva crescere forte per farla soffocare del tutto, ma non lo fece. Respirava profondamente e deglutiva. Tutto questo gli costava uno sforzo enorme, però sentiva che faceva bene a tenersela vicino, ancora un poco.
            - Mi ha detto che mi odia – disse dopo un po’ Monica ricomponendosi – Che sono io che l’ho fatta ammalare e che non ti faccio venire. Anzi che quando sei qui ti dico di andare via perché tanto è già morta. Allora io le do le pillole. E’ possibile che sia per questo, penso, ma quando torna in sé mi maledice ancora di più, dice che la faccio soffrire invano. Urla, bestemmia, mi ordina di ammazzarla, di non darle più le medicine. La morfina vuole, ma la morfina non le fa più effetto.
           - Può essere – iniziò Natalia con una voce che si faceva appena percettibile, tanto che i due credettero che avesse già iniziato a parlare da prima – che io non sia la persona migliore di questo mondo. Soprattutto non sono degna di voi. Ciononostante io sono pronta a perdonarvi, perché so come siete fatti. Cosa vi passa per la mente. Anche se ammetto che vi stimavo più capaci. Prendetevi il vostro cane, lasciatemi sola. Vi prego. Prendetevelo, ecco, ma andatevene via. Subito, ora!
           Tutto questo lo disse sollevandosi pian piano sul letto, tanto che Monica le era venuta in contro per farla stendere di nuovo. Quando fu abbastanza vicina, però, la madre scoppiò a riderle in faccia lascianodsi cadere sul cuscino contorcendosi come in preda alle convulsioni.
           - Adesso io vi ordino di andare via, con il potere conferitomi dallo Zar Nicola vi dichiaro marito e moglie. Vi faccio fucilare! Prendetevi Rasputin, lo volete? Basta che glielo ordini e lui vi verrà dietro. Vai Rasputin! – e così dicendo si rivolse verso Rupert che si era messo ad abbaiare. La pioggia si era fatta sempre più insistente e fitte. In quel preciso momento esplose forte un tuono.
            Giovanni terrorizzato si slanciò verso la sorella e la trasse via da lì. Fece nuovamente per andarsene, ma si fermò come impietrito e stette ad ascoltare. Natalia si era calmata e ora giaceva in silenzio mezza riversa a faccia in giù sulla sponda del letto. Con la mano si era messa ad accarezzare Rupert che guaiva anche lui terrorizzato
– Buono - gli diceva - stai buono. Non è nulla. Vuoi che scacci le statue? Tu credevi che per farti piacere mi sarei fatta ammazzare, che non mi sarei fatta prendere come hanno fatto loro con te. Ebbene ora sono qui, le sento arrivare, gli urlerò di andare via. Dirò loro “Vi ricordate quello che mi avete promesso?” Oh, come ho fatto a finire così, Rupert? Perché? Non mi avevi detto che non mi avresti lasciata mai? Loro mi trattano come una demente. Domanda loro se sono demente, ti diranno di sì. Dopo che mi hanno svergognata dinnanzi allo Zar. In te solo ho avuto fede e te ne sei andato. Io ti maledico dunque, vai via Rasputin!
Così diceva come in preda ad un attacco talmente forte che i due che la stavano a sentire temettero di vederla morire da un momento all’altro. Le parole le uscivano a fatica, la bocca sembrava un buco che qualcuno avesse fatto col dito nel terreno e i seni ormai flosci e pendenti le erano arrivati fin dietro la schiena. Sembrava che anche lei non credesse minimamente a quello che diceva, come se entrasse e uscisse improvvisamente da un sogno.
- Ecco, guardala! – disse Monica al fratello – e’ così tutte le sere. Non si può andare avanti, io non posso andare avanti così. Per te è facile arrivare qui e dire no. E’ facile dirlo, ma io so che lei non vorrebbe vedersi così, non vorrebbe vedere noi subire tutto questo.
Giovanni rimase immobile come in attesa. Guardava sua madre e Monica che si era gettata sul divano e piangeva di nuovo. Scorgeva adesso soltanto desolazione e follia. Rupert aveva smesso di abbaiare e intontito andava in cerca del padrone. Si avvicinò a lui. Gianni lo guardò fisso e Rupert guaì una nota così bassa che sembrava quasi una preghiera. In vita sua non si era mai sentito così infelice come in quel momento.
Tutt’a un tratto il cane corse via ammutolito. Lo sguardo di Giovanni esprimeva odio e sofferenza. I suoi occhi si incrociarono con quelli della sorella che ora lo guardava con le mani giunte sul petto. Ella capì subito.  Un piccolo lampo bianco saltò fuori dalla tasca di Giovanni che si era lanciato verso la madre.
          - Le statue! – gridò lei con il poco fiato che le era rimasto e svenne. Gianni le piombò con tutto il corpo di sopra, ma la lama non trovò la carne. Monica era riuscita da ultimo a trattenere il fratello quel tanto che bastava per fargli mancare il colpo. Egli si ricompose rapidamente e scappò via, seguito dalla sorella che gli era corsa dietro per aprire le porte dell’ingresso che aveva chiuso a chiave.
            Rupert sollevò Natalia con le braccia, la portò nell’altra stanza adagiandola su una poltrona. La guardava ammirato, quasi stupefatto e lei svegliandosi lo vide sorridente davanti a lei e ricambiò il sorriso. Sopra ad un tavolo c’era un bicchiere,  lo prese e ne bevve il contenuto senza guardare. Per circa un minuto non le riuscì di capire nulla. Infine ebbe un sussulto e si gettò tra le braccia di Rupert
            - Mio! Sei l’amore mio – disse al sommo della gioia.
Monica ritornata nella stanza la stette a guardare per un poco mentre Rupert le leccava il viso e la faceva ridere. Non disse nulla, si avvicinò lentamente, lo prese per il collare e lo portò fuori.
            - No – diceva Natalia – no!
Monica si sedette sul bordo del letto. Le prese la testa tra le mani e iniziò ad accarezzarla passandole le dita sulla nuca, consolandola e asciugandole le lacrime come una bambina dopo una caduta. Mentre faceva questo piangeva di nascosto anche lei tirando su col naso. Si chinò per baciarle la fronte e le sussurrò all’orecchio che presto, molto presto, Giovanni l’avrebbe portarla via da lì.

(bob)

martedì 6 marzo 2012

da un congedo

Ascoltami, la ruota ha compiuto il suo giro,
la volta a ‘n’ del cielo, il bucato appeso,
ricordo il guanciale del tuo collo imbevuto;

così mi sono sorpreso spaurito come
un vecchio di prima mattina. Ascolta
per il tempo di un’aspirina o il dolore di un

ago, per questo mi sono addormentato
in silenzio assuefatto a corridoi di diossina
che ci avvelenano. Il tuo sguardo fiammeggia

in segreto e sento due labbra lungo la nuca
che mi urlano di andare, correre, non fermarsi,
verso la direzione, l’alba grande, il punto.

Così mi stacco da terra e sembra un’ecatombe
di stelle, come tante lampadine viste da
un satellite che scoppiano impreviste

spargendo scintille in aria. Il tuo sguardo
è ancora là fiero e non parla di perdono
e fa mia la colpa del messo senza pena,

mente, motore o altroché sia nume di eterno
fattore. Ascolta di questo strumento che non
suona la gola chiusa, l’urlo di cera delle sirene

che si lega all’albero maestro del cuore. La
ruota ha segnato un altro giro adesso e di là
si festeggia con evidenza di parole l’universo.

(bob) 


giovedì 9 febbraio 2012

Campari

E’ la terza sera che piove e fa freddo. La grandine ci costringe sotto i balconi e i campanelli vicino alla Scaletta di Don Carmelo. Il nevischio che si scioglie nelle pozzanghere come la luce economica dei lampioni, odore di fumo, il vento che striscia anche dentro le scarpe o sotto qualche macchina parcheggiata male, tra i gatti che cercano rifugio dall’acqua, col muso dentro qualche tappo di birra e i baffi bagnati, pieni di morsi su tutto il corpo. Dannata merla, dannate sere come tante, chiacchiere e cartine per rollare sigarette, con le labbra arrossate ciucciando dalla bottiglia e le mani strette al collo. I ragazzi nervosi maledicono così ogni cosa che passa, esercitando un diritto che dio solo sa come se lo sono guadagnato dopo una giornata di lavoro a stringere i denti per non bestemmiare.
Ora che è gennaio inoltrato il cielo si fa grigio fin dal primo pomeriggio lungo tutta la strada. I fari dei camion della spazzatura spezzano in due la colonna nera di traffico, studenti, lavoratori e madri piene di infanti che rincasano facendosi spazio  tra certe facce d’immigrati che spuntano a caso dagli angoli. Quando il tempo è buono e in tutto questo formicaio non si infila a forza nient’altro che viene giù dal cielo, non si sa come, le strade sono sempre più sgombre.
Anche di questo si ha il tempo di lamentarsi qua sotto con le marchette degli strozzini che ti guardano male se posi il piede sul muro nuovo e i barboni che si litigano qualche restatina di birra trovata per terra. Si fa in tempo a lamentarsi di tutto e ci si sente come gli irriducibili in protesta anche nel freddo per un qualche male comune di cui nessuno sa pronunciare il nome.
Frank è qui ogni giorno dopo il lavoro, puntuale come un controllore del tram, piantando bene gli stivali per terra si lega a coda di cavallo i capelli lunghi e sottili. Avanza da monte adocchiando la situazione molto prima di arrivare in mezzo a quei pidocchi di studenti che vengono dai paesi all’università in centro e poi da lui che si fa rifilare di tutto – comprese le fregature - anche se ufficialmente è meno che disoccupato.
Sulla strada, solitario un barbone si avvicina con un paletot sulle spalle messo su come una mantellina. Mastica uno stecco di legno con gli unici denti che ha in bocca. Frank lo guarda. Il barbone si ferma un momento per raccogliere qualcosa che sembra gli sia venuta giù dalle tasche e riprende il passo. Nel gesto perde lo stecchino, si ferma nuovamente per raccoglierlo e se lo rimette in bocca. Frank se lo ritrova davanti, ma lo lascia lì sul posto verso la luce della Scaletta che viene fuori come una stringa dalla saracinesca.
Si guarda attorno entrando grattandosi un braccio e si rivolge direttamente verso i freezer sulla destra. Il padrone sta seduto alla cassa «Buona sera» fa Frank senza ricevere risposta. Afferra con una mano una 8.6 e la posa sul bancone «Due e venti» risponde il padrone schioccando la lingua. Frank lascia i soldi sul marmo ed esce senza salutare.
Sam ha poco meno di quarant’anni, ma ne dimostra sessanta. Siede in un angolo della discesa tra due bidoni della raccolta differenziata con un pezzo di cartone per cuscino e la borsa di corda in cui tiene i suoi ferri. Accanto a lui Poldo, un bastardo di nove mesi, abbaia alle campane delle sette e tre quarti. Non ha soldi Sam, soltanto un po’ di stagno e qualche catenina che scambia volentieri per una birra o una sigaretta. Sembra appisolato, il mento sprofondato sul petto. Ogni tanto si muove e con la mano fa come per togliersi qualche mosca dal naso, vigila così sulla sacca che stringe tra le gambe lasciando a Poldo ogni altra incombenza.
Frank lo sa e fa finta di niente. Lui e Sam vanno molto d’accordo per una storia che gli ha procurato dodici punti sulla mano destra e un bassotto a cui è toccato risistemare il collo «che se li portasse qualcuno quelle bestie Caine» che se la prendono con uno come Poldo, ma il padrone non disse niente perché lo si conosceva bene e perché qualcuno gli aveva allungato un po’ di roba. Questo ripagò Frank per certi altri impicci che solo Sam sapeva come sistemare, ciononostante adesso non aveva voglia di stargli dietro che bravo era bravo, ma decisamente troppo accollativo per i suoi gusti.
Un’altra volta c’era stato un grande casino col tipo con lo stecco di legno di prima che gli sputava in faccia e lo prendeva a calci a Frank che era ubriaco, ma poi Sam aveva aggiustato le cose dando qualche euro da bere al barbone. Il quale però si era rifiutato di andare lui a comprare la birra e anzi aveva tirato a Sam i soldi in faccia urlandogli di farlo al posto suo. Frank allora, che come tutti sanno è un tipo tranquillo, si era incazzato di brutto e urlando come un matto aveva scacciato via il vecchio con lo stecco.
Sam ha sempre negato ogni parola di questa storia perché no, non è vero che il tipo con lo stecco lo ha trattato male, ma che anzi lui è un vecchio con tanti problemi e forse ha frainteso. E allora in pratica tutti e tre sono rimasti con l’amaro nel sangue, ma alla fine nessuno se ne ricorda, tantomeno il vecchio con lo stecco che in effetti di problemi ne ha più di tanti, ma la vita del resto è quello che è e si fa presto a vederla andare avanti, che poi a furia di segnare ti dimentichi persino di chiederle il conto e poi basta.
«Vedi» mi fa segno Frank «là» indicandomi il tipo con lo stecco che si è messo ad attraversare avanti e indietro la strada senza badare al traffico, ma anzi urlando contro i clacson delle auto incolonnate. Il paletot che ha addosso gli è scivolato lungo un fianco e adesso si vede chiaramente che gli manca il braccio destro. Dalle grosse tasche laterali saltano fuori dei piccoli topi bianchi che precipitano squittendo sull’asfalto, lui si piega platealmente per raccoglierli alzando prima l’unico braccio al cielo e facendolo piombare di colpo sull’animale come se stesse cercando di pescare trote con le mani. Mugugna, bestemmia. Alla fine ne afferra uno e lo tira contro il muro di fronte e così gli altri tre per terra prendendoli a calci come se fossero barattoli. Il marciapiede si riempie di strisce di sangue che la grandine schiarisce via in pochi istanti.
«Certe persone meriterebbero di morire e invece no, nemmeno la grandine se li leva a questi qua»
Seguiamo il tipo con lo stecco continuare verso il muro e accasciarsi sulla macchia chiara dove prima c’era il sangue. Si ferma a parlottare da solo mettendosi seduto a contare gli ultimi due topi rimastigli in tasca. Frank bestemmia, fa scivolare in una cartina un po’ di tabacco, la gira con una mano e l’accende. Ha le mani martoriate come quelle di un tossico a causa del freddo e delle birre aperte con mezzi di fortuna.
«Stammi bene a sentire. Sono due settimane che non si vede un cliente che sia uno che voglia pagare. Questo lo sai benissimo, la gente non paga, ma si sente in diritto di lamentarsi poi che non ci sono soldi. Io ne vedo a iosa di questa gente che si fanno i fighetti con le canne in bocca e i liquori che vengono a dirti poi che soldi non ce ne sono. Ed io sai che faccio? Non dico niente. Perché sostanzialmente alla gente come me non fotte un cazzo che le cose possano cambiare anche di così. Finché avrò la possibilità di venire qui nonostante tutto a bermi una fottuta birra e rollarmi un po’ di tabacco del cazzo non muoverò mai un dito seriamente per fare nulla che sia nulla. E così anche loro finché potranno farsi i fighetti del cazzo e farebbero anche le marchette e alcuni di loro li ho visti farlo addirittura pur di avere i soldi in tasca. Ma questo no, il culo non lo danno per chi il culo lo dà via per loro. Questo mai.»
Uno schianto lo interrompe. Vediamo entrare chiassosamente alcuni ragazzi nel locale che smanacciano verso il telefono. Al padrone sale il sangue alla testa e poco manca che si metta a bestemmiare, ma l’urlo di una fighetta lo passa da parte a parte. Frank sbatte giù la birra che ha comprato e con un impeto di tosse per poco non mi centra in pieno. Di là, dall’altra parte della strada, il poggiolo sotto cui si trovava il vecchio senza un braccio è venuto giù dritto e adesso lo si vede in una pozza di sangue che la grandine non fa in tempo a lavare via perché la polvere dei calcinacci la raggruma tutta. Il vecchio respira ancora contraendo lo stomaco. In un istante siamo tutti in mezzo alla strada con Poldo che abbaia più forte di tutti.
Nessuno si avvicina troppo per paura che accada qualcosa. Frank si strofina le labbra e bestemmia. Sam dà due colpi di tosse nel fazzoletto che si colora di sangue. «L’ambulanza sta arrivando» fa qualcuno da dietro. Il vecchio si lamenta come se lo avessero appena svegliato, con tutti e tre gli arti dritti in aria che sembra che qualcuno l’ha piantato a forza dentro un buco a suon di pugni. Ha la faccia ridotta a un cruciverba.
Alla fine non si muove più e tutti si guardano perplessi. Io mi faccio il segno della croce e guardo Frank che a sua volta non stacca un momento gli occhi dalla scena. Sembra davanti al mare Frank in quel punto in cui l’orizzonte è lo stesso da ogni lato. La mano del vecchio inizia a muoversi nuovamente e si sente come un unico tirare di fiato. Da sotto al palmo spunta fuori uno di quei topini bianchi e subito gli va dietro l’altro. Frank sorride, si alza il pellicciotto e si mette accanto con la sua solita posizione a gambe aperte. Incrocia le mani sulle cosce piegandosi in avanti. Li afferra entrambi e se li mette in tasca.

(bob)