Quello che conta è grattarsi sotto le ascelle: Atto II

venerdì 21 agosto 2009

Atto II

Tanto per assumere il vizio di postare ho deciso in questo primo periodo di aggiornare il blog con i piccoli e grandi successi ottenuti lungo la strada del suo completamento. Considerandomi come già saprete poco pratico di Blog e affini anche piccoli passi come modificare la barra in alto dell'intestazione di pagina sono traguardi di cui vado fiero.

Colgo l'occasione per invitare chiunque voglia a lasciare suggerimenti e considerazioni di qualsiasi tipo sullo sviluppo del blog.

Ho in mente di inserire alcuni vecchi articoli pubblicati su una web-zine abbastanza famosa, ma desidereri per questo creare un archivio apposito. Se qualcuno fosse così gentile da spiegarmi se e come ciò sia possibile si farebbe un amico. Grazie :)

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MI HA DELUSO

Intendiamoci, non si tratta esattamente di una delusione, sempre che per delusione si intenda una reazione esagerata. Devo ammettere che dopo l’ennesimo ascolto sono stato tentato di fare fuori il disco coi piedi, ma non perché il prodotto non fosse valido. Ecco, già solo utilizzare il termine prodotto per un disco di Caparezza mi fa realizzare sempre di più come questo Il Sogno Eretico deluda chi come me ha ascoltato molto bene i primi quattro dischi, proprio sul piano del suo valore artistico. Siamo ben lontani dai colpi di genio di Habemus Capam o dalla lucidità compositiva de Le Dimensioni del mio Caos. Quello che resta sono quattro pezzi di brillante stile Caparezza (Goodbye Malinconia, La Marchetta di Popolino, House Credibility e Ti sorrido Mentre Affogo) e altri dodici semplicemente orecchiabili. Non sarà certo Chi se ne frega della Musica a ricordarci l’irriverenza di Michele Salvemini, né tantomeno Il Dito Medio di Galileo o Kevin Spacey a farci capire che Caparezza è uno spirito libero oltre che una testa pensante, tutto questo lo sapevamo già. Quello che Caparezza di dimentica di fare in questo quinto disco in studio è dire qualcosa di veramente originale. Peccato.

CONSIGLIO

Mi risulta davvero difficile parlare di questo libro se non limitandomi a definirlo un capolavoro, però anche in questo modo non potrei cavarmela senza cercare di spiegare in qualche modo tanta ammirazione. Infinite Jest è un’opera colossale, un cult fin dal momento in cui la prima copia ha trovato posto sullo scaffale delle librerie. Irriverente, ironico, pungente, pesante, alienante, profetico, unico. David Forster Wallace ha dato alla letteratura quello che successivamente Paul Wes Anderson diede al cinema. Un’opera monolitica sulla società di oggi e di domani. Una critica sull’ossessione dell’intrattenimento, per dirla con Eco, alla carnevalizzazione della vita quotidiana. Uno sguardo impietoso sulle dipendenze, l’alienazione, il disagio. Ecco, Infinite Jest è tutto questo, ma solo in minima parte. E’ molto, molto di più.

STO GIOCANDO

Non credo esista un’altra saga in grado di comprendere tutti i significati del termine videogioco. La quadratura videoludica del cerchio. Il noumeno di ciò che si intende per maturità del medium. The Legend of Zelda fa parte di quei capolavori che in qualsiasi campo sia esso artistico o addirittura sportivo assurgono a sinonimi del genere. La mano di dio, il sorriso della gioconda, l’uomo dal multiforme ingegno. Dovendo sceglierne uno The Wind Waker, il meno celebrato di tutti, è al tempo stesso il capitolo che rappresenta meglio la visione di Nintendo. Le avventure dell’Eroe del Tempo sono ognuna una leggenda diversa, o addirittura la stessa storia narrata da voci inconsuete in epoche lontane. La musica evoca lo spirito dell’eroe, rimescolando sentimenti e suggestioni, celebrando l’apertura dei sensi, quelle cellule del cervello che da piccoli ci facevano sentire eroi o pirati, esploratori o guerrieri. Soltanto un videgioco può trasformare chi gioca nel protagonista, farci attraversare il vetro del monitor come Alice lo specchio per sconfiggere il Jabberwocky. Tornare alla vita di sempre dopo avere salvato il mondo, con la certezza che un giorno o l’altro ci sarà chiesto nuovamente di indossare il cappuccio verde e brandire la spada suprema. Perché senza di noi in fondo Link è soltanto un bambino che dorme.

STO ASCOLTANDO

Ci si trova in imbarazzo a parlare di un disco come Ligeia, non fosse altro perché, lo confesso, si tratta del primo EP di una coppia di amici ed è lecito dubitare dell’obiettività di chi scrive. Perciò sta alla buona fede di chi legge credere che la maggior difficoltà in questo caso consiste nel trovare una parola che non sia di troppo, quella giusta insomma. Questo perché Ligeia ha la qualità della buona musica, predispone al silenzio, che poi è l’atto propedeutico all’ascolto. Credo che sia proprio questa enorme colonna di silenzio che paradossalmente le sei minimaliste tracce del CD riescono ad evocare il maggior pregio di Ligeia. Una dimensione altra in cui, a prescindere dai gusti, alla fine dell’ultimo pezzo ci si ritrova intontiti come di ritorno da un viaggio che si ha voglia di ricominciare. Perché il rumore è una gran brutta cosa ed è questo il motivo per cui Mordecai non parla.